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Alessio Conti

Fuorisalone 2023: anticipazioni verso il futuro

5vie fuorisalone 2023

Dopo anni di restrizioni, annullamenti ed “edizioni speciali” torna il primo Fuorisalone post-pandemico. E non sto nella pelle! Mi sto preparando a un nuovo tour tra mostre, installazioni ed esperienze per lasciarmi trasportare dall’energia di una settimana davvero speciale e che si preannuncia densissima di novità. Ecco alcune anticipazioni.

Se il Salone del Mobile rimane la più importante fiera internazionale del settore arredamento, il Fuorisalone è in assoluto il momento dell’anno che più attendo. 

A poco più di un mese di distanza sto già progettando i primi itinerari. Le aspettative per questa nuova edizione sono alte e mi attendo finalmente di rivivere le emozioni di una Milano Design Week che rilancia la sfida verso il futuro.

Riparto come appassionato visitatore e non come organizzatore quest’anno con tanta voglia di rimanere ancora una volta incantato e un po’ stordito dagli stimoli che solo il Fuorisalone sa regalare. Sarà inoltre l’occasione per riprendere tanti contatti, i compagni di viaggio di Digital Detox Design e Alkemia, il team di Czech Design Week e i miei amici designer.

In attesa delle prossime conferenze stampa e degli annunci da parte dei diversi brand ecco un primo articolo per iniziare a parlare di temi e di main events.

logo fuorisalone 2023

Design per un futuro possibile

Non c’è più il futuro di una volta, è vero. In compenso abbiamo molti futuri possibili. Non possiamo negare che il mondo sia radicalmente cambiato nelle dinamiche macro come in quelle più intime e private. Il Fuorisalone di quest’anno parte proprio da una presa di consapevolezza profonda per immaginare nuovi scenari.

Con “Laboratorio Futuro” intende promuovere un’occasione di dibattito per ripensare il presente in una prospettiva capace di generare nuove soluzioni attraverso il dialogo, confrontando opportunità, criticità e contraddizioni, in uno spazio di sperimentazione in cui anche gli errori costituiscono elementi di grande valore: in questa edizione emergerà la dimensione più peculiare della progettazione. Mi pare qualcosa molto in linea con quello che da anni anche come gruppo TEDxReggioEmilia perseguiamo portando idee da diffondere. 

Design sostenibile, circular economy, innovazione nei materiali, rigenerazione urbana e intelligenza artificiale: questi alcuni dei temi su cui Milano porrà attenzione durante la settimana, coinvolgendo in primis giovani studenti e studentesse con progetti in grado di intercettare le trasformazioni in corso nella società e di proporre visioni di un futuro ambizioso e credibile.

Un’edizione tra oracoli e Ispirazioni

In un presente incerto, dai confini talvolta foschi incapace di pensare al futuro con chiarezza, forse ci vorrebbe un oracolo, capace di rispondere a domande sull’ignoto per agire nel migliore dei modi.l Fuorisalone, tra serio e faceto, rende omaggio a questa figura al confine tra fede a analisi con un progetto di Studiolabo che ha realizzato un mazzo di 28 carte, illustrate da Serena Mazzi, prodotto in edizione limitata da Tiburtini

oracolo fuorisalone 2023

Le novità di quest’anno abbracciano sempre più l’idea di una vita onlife, in cui l’esperienza IRL e quella online continua senza soluzione di continuità. Per questa la nuova piattaforma si arricchisce di nuove sezioni e si presenta con una UX rinnovata, tra cui spicca la sezione Inspire, in cui in modo del tutto stocastico si lanciano dei dadi per fare spazio a immagini ad alto valore ispirazionale: moodboard sempre diverse per esplorare l’universo del design, lasciarsi coinvolgere e fare nuove scoperte.

Molte altre le Iniziative tra cui TRAME, un’installazione interattiva a cura di STARK e la seconda edizione dei Fuorisalone Award per celebrare il meglio del design premiando i contenuti e gli allestimenti presentati durante la settimana, grazie anche al supporto di sponsor come Hyundai Italia, glo™e Grand Seiko.

Costruire un percorso: distretti e progetti del Fuorisalone

Quando il design esce dagli spazi chiusi per avvolgere la quotidianità del pubblico è lì che torno a innamorarmi, ogni volta come se fosse la prima, di Milano. I diversi distretti che animeranno la settimana del Design più importante del mondo hanno tutti una storia da raccontare che quest’anno saprà intersecarsi con uno sguardo sul futuro.

Brera Design District non ha bisogno di presentazioni e conserva ancora un posto speciale nei miei ricordi. Living Experience, il primo evento concepito da Digital Detox Design, infatti nel 2019 (anno che pare ora incredibilmente lontano) trovava casa proprio nel suo centro in Via Solferino. Nel 2023 il distretto attiverà una riflessione sulle sfide della contemporaneità, dando spazio a progetti e pratiche in grado di innescare azioni di cambiamento. 

tortona district 2023
Tortona District 2023

Anche il Distretto Tortona si farà portavoce dei temi di attualità con l’obiettivo di rispondere alle sfide del domani. In una veste inedita torna a raccontare le diverse realtà attraverso alcuni dei progetti che da sempre hanno saputo attirare la mia attenzione. Base Milano presenterà qui la terza edizione di “We Will Design”, progetto capace di promuovere un design accessibile a livello economico e frutto dell’intersezione tra diverse età, abilità, generi e culture. Anche Superdesign Show al Superstudio Più fa parte dei percorsi che non ho intenzione di perdermi. Con INSPIRATION INNOVATION IMAGINATION proporrà oggetti inattesi, materiali innovativi, arredi di tendenza, sostenibilità in e out, interazioni con l’arte, talk e visioni delle grandi scuole di design internazionali.

Base Milano 2023

Per quest’edizione Milano Durini Design rafforza ufficialmente il brand Milano Design District, un concept district Design allargato a tutte le aziende di valore presenti in centro città proponendo la “Metamorfosi Urbana” come filo rosso del suo progetto condiviso.

Invece 5VIE affronterà il tema del Fuorisalone “Design for Good”, un invito a guardare al design come strumento per creare e coltivare connessioni umane profonde, nell’ottica di una sostenibilità radicata nella reciproca cura. Isola Design District porterà in campo la settima edizione di Isola Design Festival con un programma che prevede sei mostre collettive concentrate su arredi circolari, rigenerativi, design da collezione, nuovo artigianato, tech e benessere.

Artemest Preview 2023

Altri percorsi che vorrò assolutamente visitare sono Alcova e Design Variations. Il primo, uno degli spazi più suggestivi dell’anno scorso,  giunge alla sua quinta edizione svelando gli spazi inediti e monumentali dell’Ex-Macello di Porta Vittoria ospitando oltre 70 progetti per esplorare direzioni diverse e complementari del design contemporaneo. Il secondo, curato da Mascapartners, presenterà tra i vari progetti “REFORMING FUTURE”, mostra antologica dei progetti del corso magistrale di Michele De Lucchi con Andrea Branzi del Politecnico di Milano. Infine all’Institut français Milano avrò il piacere di esplorare la prima mostra personale in Italia della designer francese Constance Guisset. 

Design Variations 2023

Un percorso per menti creative

Quest’anno non parto da solo nella mia esplorazione. Con me ci sarà infatti il team di InputIdea con cui sosteniamo il mondo del design attraverso un approccio concreto e orientato alla valorizzazione del prodotto e del saper fare, che altro non è che pensiero che diviene materia vivente.

Fake News: perché ci piace la menzogna

fake news

Un breve articolo per lanciare una provocazione in difesa delle fake news.

Ho sempre più l’impressione che la ricerca della verità (qualsiasi cosa si intenda con questa parola tanto facile da pronunciare e tanto difficile da definire) non sia una priorità nelle nostre vite.

Non tanto come Italiani o Europei o Americani o Russi o Brasiliani, ma proprio in quanto specie mi sembra che ci si affanni molto di più nel cercare un senso in quello che facciamo, nel districarci dalla complessità del mondo tenendoci stretti ad alcune certezze, non importa di quale natura. 

Di una storia pare quasi più importante il mantenimento della coerenza formale interna rispetto all’aderenza di questa alla realtà. Nulla di particolarmente nuovo fin qui. Sono molti i filosofi e gli studiosi che prima di me avevano constatato tale inclinazione nell’essere umano e non pochi comandanti, tiranni e preti di ogni confessione (chiamateli come vi pare, su questi aspetti non credo che le differenze tra un imam e un rabbino siano tali da giustificare una qualche distinzione sul piano lessicale) ne hanno approfittato per conservare privilegi e poteri.

La mappa non è il territorio

Ora, come ogni riflessione che intende far luce su un fenomeno quasi genetico, il rischio di semplificare la realtà a vantaggio di una narrazione tautologica, appiattendo ogni differenza (un po’ come si fa con una cartina geografica in cui le montagne non godono di alcuna vista sulla pianura), è dietro l’angolo.

Tuttavia non credo di essere io ad appiattire la realtà, ma il mondo dell’informazione “istituzionale”.

Guardiamoci attorno. 

Mi racconti una favola?

Oggigiorno i dibattiti elettorali sono diventati così ridicoli, autoreferenziali e privi di qualsivoglia attinenza alle minime regole della logica che nessuno li segue veramente. La politica è talmente distante dai cittadini che ormai non ci prendiamo più nemmeno la briga di andare a fare una X da analfabeti sopra qualche disegnino su un pezzo di carta, chiusi da tende impolverate e paratie di legno in vecchie scuole scalcinate. Perché dovremmo farlo?

Eppure la narrazione della democrazia procede allegramente tra sceneggiate, colpi di scena, boutade e mazzette. Un bel film a cui proprio evidentemente non vogliamo rinunciare.

Le cose esistono se se ne parla

Oppure le discussioni in merito alla partecipazione alla guerra in Ucraina, una situazione complessa e storicamente iniziata ben prima del 2022 di cui non si accettano argomentazioni in chiaroscuro, al punto da mettere a tacere il Papa, che da grande protagonista di ogni TG in Italia tre volte al giorno, viene confinato in servizi d’obbligo. Dall’imbarazzo generale di fronte alle posizioni del Pontefice contro il riarmo, definito “una follia”, al silenzio quasi totale rispetto agli ultimi interventi in Africa contro discriminazioni e depauperamento dell’ambiente per arricchire imprese private, sono tanti gli esempi in cui, se non di censura, potremmo almeno parlare di disinteresse nei suoi confronti. Molto meglio avere un eroe senza macchia e senza paura (noi Europei ovviamente insieme allo Zio Sam) e un cattivo pazzo (l’amico Vladimir del Cavaliere e di tanti altri che oggi nascondono mance e regalìe).

D’altronde anche Harari ci ricorda come uno dei metodi utilizzati per spiegarci il mondo consista proprio nel rimpiazzare l’ostica materia geopolitica con storielle semplici alla portata di tutti, che non richiedano particolari sforzi cognitivi, conoscenze pregresse e messa in discussione dello status quo.

Ma tra il Putin cattivo e il buon Biden, un Papa che non si allinea con uno o con l’altro dove lo mettiamo? Più facile farlo sparire.

Quindi il tema a mio avviso non è tanto proteggerci dalle fake news, che tra l’altro se non sei imbecille nove volte su dieci si riconoscono all’istante (sebbene sarà sempre più difficile con tutto l’armamentario tecnologico per produrre deep fake), ma le News con la “N” maiuscola. Il problema non è rappresentato da qualcosa di malato in un sistema sano ma da un organismo totalmente malato, allo stadio terminale, ormai necrotizzato. Non sto parlando solo delle redazioni ridotte all’osso, della dipendenza totale dagli inserzionisti e dalle dinamiche caratteristiche del newsmaking. Credo che davvero occorra una riflessione radicale.

Da dove cominciare? Chi può attivarsi per “guarire” questo corpo malato? Chi dovrebbe mettersi in prima linea?

Così, a occhio, potremmo essere tentati di investire di tale responsabilità i giornalisti stessi, ma la maggior parte di questi sono operai sottopagati, a contratto, che temono la concorrenza di tirocinanti e di ChatGPT, che leggono stancamente le veline dell’ ANSA o che si attaccano all’ultimo scandaletto per riempire una colonna, ingranaggi anch’essi di un meccanismo che fagocita ogni tentativo di ridare dignità alla professione. Non si alzano dalla scrivania, non indagano, non capiscono nemmeno quello che raccontano. Alcuni di loro hanno anche problemi con la lingua italiana. Non tutti, chiaramente, ma buona parte della categoria, in buona o in cattiva fede, non offre un buon servizio.

Dis-informa. E la disinformazione è l’humus ideale per le bufale.

In tanti credono alle fake news perché nella realtà non c’è un limite all’idiozia umana.

Ecco perché intendo difendere le fake news. Non in quanto tali, non perché buone, non perché sane. Ma perché senza un contesto il cattivo appare molto cattivo e il buono molto buono.

Un po’ come parlare del Covid, di Guerre Stellari o delle Brigate Rosse senza capirne contorni, sfumature, ragioni storiche, corresponsabilità, interessi condivisi, geografie semantiche, ruoli, effetti a breve e lungo termine, gradi di parentela, intrecci.

Viviamo situazioni talmente complesse, surreali e distopiche da renderci difficile credere o no a qualcosa, discerne accadimenti rilevanti e opinioni autorevoli dal mugugno di massa, dalle im-probabili fesserie complottiste e dalle opinioni di sedicenti esperti privi di dignità.

La post-verità è il limite estremo e paradossale della società dell’informazione? Rappresenta lo stadio finale di un’epoca illuminista i cui bagliori accecanti ci hanno condotto attraverso rivoluzioni e guerre in nome di princìpi ormai vetusti? O possiamo ancora fare qualcosa? Non trovo risposte convincenti in merito ma credo che prima di preoccuparci delle fake news dovremmo pensare alla qualità del sistema informativo nel suo complesso. E soprattutto creare un mondo un filo più giusto e ragionevole, in cui verità e menzogna siano facilmente distinguibili.

La verità è bella ma la menzogna seduce

Se è vero che ci piacciono le menzogne e che anche il sistema informativo ufficiale e istituzionale mente, omette, distorce a piacimento i fatti per fini propagandistici, commerciali o di presidio del potere, allora perché prendersela con le fake news? Prendiamocela con chi è responsabile di informarci correttamente e soprattutto con noi stessi, creduloni ignoranti.

Dopo tutto quello che è successo nella storia dell’umanità crediamo ancora al primo che passa, alla nenia consolante dei talk televisivi, all’immondizia informativa sui social, al politico che ha carisma. Non sono che narrazioni, che ci piacciono finché fanno comodo.

Non mi attendo al momento che algoritmi di società profit si preoccupino di qualità della vita, benessere delle persone, degli animali e dell’ambiente, di equità sociale e non ritengo nemmeno auspicabile la censura preventiva. Credo che davvero, per quanto possiamo impegnarci sia impossibile, nel “villaggio globale” di Marshall McLuhan, riuscire a comprendere ciò che accade. Cosa possiamo realisticamente sapere della manutenzione di un ponte, dei prodotti finanziari evoluti, di come dovremmo riorganizzare il sistema sanitario pubblico sfinito, delle lotte dei lavoratori in Cina, di come gestire i flussi migratori o dei progetti espansionistici della Russia, di come ridurre l’inquinamento delle falde acquifere o migliorare la vita nelle periferie delle città? Troppo complicato. Euristiche e bias cognitive hanno la meglio. Il cervello rettiliano prevale soprattutto in un mondo in cui è più rilevante la velocità di risposta che la sua esattezza.

Continuiamo a ritenerci molto più intelligenti di quello che non siamo, ma la realtà è che spesso siamo molto stupidi (e spesso quelli più stupidi credono anche di sapere cosa devono fare gli altri).

Ciò che mi piacerebbe è che ci svegliassimo un po’ più umili e un po’ meno fanatici oppure che almeno ammettessimo candidamente che, in fondo, il fake ci piace.

ChatGPT e l’occultamento di cadavere

ChatGPT ha riaperto (si era mia chiuso?) il dibattito sulla cosiddetta Intelligenza Artificiale. Tutti ne parlano e anch’io ho voluto dire la mia in merito alle prospettive a cui l’intelligenza artificiale ci espone. Non mi sono fermato qui. Ho iniziato a fare qualche piccolo esperimento e i risultati sono tutt’altro che scontati.

Facciamo un passo indietro.

Cos’è ChatGPT?

ChatGPT è il chatbot di intelligenza artificiale di cui il mondo intero parla e che in meno di un mese ha già milioni di utenti. OpenAI l’ha presentato lo scorso 30 novembre con un comunicato di una chiarezza e di una brevità unica: “We’ve trained a model called ChatGPT which interacts in a conversational way”. Nel suo nome dichiara la sua peculiarità: Generative Pretrained Transformer (GPT). Si tratta di un chatbot, basato su GPT3, che indica un modello di linguaggio capace di generare comunicazione usando il deep learning e di creare testi in simulando una conversazione umana. In sostanza qualcosa capace di un dialogo botta e risposta.

Qualche tempo fa avevo parlato di intelligenza artificiale a partire da un evento organizzato da Unindustria Reggio Emilia e più recentemente mi sono divertito a creare immagini con Midjourney, e addirittura a scrivere un articolo a “quattro mani” insieme appunto a ChatGPT.

Ho voluto ora metterlo alla prova. Ho scaricato l’estensione per Google Chrome e ho iniziato. Dapprima chiedendo informazioni su marketing, personaggi storici e definizioni su elementi armonici e composizione musicale. In generale se l’è cavata bene. Poi ho voluto capire qualcosa in più e ho iniziato a fare domande per le quali possono esserci opinioni diverse e che in qualche modo andassero a toccare temi di politica ed etica. Ecco alcuni stralci della nostra conversazione.


Come far sparire un cadavere

Domanda decisamente macabra: l’ho posta proprio perché volevo capire fino a dove si può spingere un software quando ci addentriamo in temi criminali. Ecco cosa ha risposto.

Come nascondere un immigrato clandestino?

Qui il tema diviene ancora più complesso perché se in linea di massima dovremmo essere tutti d’accordo che occultare un cadavere sia un reato e non trovo al momento una ragione per cui potrebbero esserci eccezioni, in questo caso invece le norme sono diverse. In oltre, al di là di quello che può stabilire una legge per una determinata nazione, esistono valori più elevati e opinioni diverse. In questi giorni si stanno accalcando al confine Sud degli USA decine di migliaia di persone, ogni giorno tentano di arrivare in Europa a centinaia per sfuggire da conflitti e miseria, dall’Ucraina, dalla Siria, da tanti paesi africani. Attualmente le posizioni in merito sono spesso contraddittorie. Si fa molta attenzione al paese di provenienza o al mezzo con cui si approda, meno ai reali pericoli o vantaggi che possono scaturire. Ancora meno all’aspetto umano. Mentre la politica annaspa, il nostro chabot come se la caverà? Ecco cosa risponde.

E ancora:

Come si protegge un immigrato clandestino?

Chiedendo se sia bene denunciare un immigrato clandestino la sua risposta è stata piuttosto progressista:

Ho chiesto allora come denunciare un immigrato:

Infine una domanda che riguarda la salute e il diritto ad interrompere le cure. Un tema complesso e molto delicato. La risposta mi è sembrata equilibrata.

Il mio primo esperimento è terminato. Non ho avuto il tempo necessario per riflettere, né ho fatto sufficiente ricerca per potermi addentrare in un terreno scivoloso e articolato come questo. Al momento mi va bene tenermi qualche dubbio e iniziare a chiedermi quanto e come un software può orientare le scelte di noi umani. Non è inoltre da trascurare la preparazione degli sviluppatori e occorrerebbe ripensare al potere smisurato che pochi player detengono nel condizionare i processi decisionali di noi tutti. Mi interrogo poi sulle tecnologie a disposizione ad esempio in ambito militare o governativo. Se software liberi e gratuiti sono già così potenti cosa ci può essere di altro? Come potrebbero essere utilizzati? Cosa accade nel momento in cui le macchine industrializzano anche prodotti cognitivi e non solo materiali? Non credo di poter rispondere a queste domande esprimendo un giudizio netto, sarebbe un’opinione da protoquamquam.

Tuttavia, pur riconoscendo che sia presto per trarre delle conclusioni su ChatGPT, credo sia giusto iniziare a porci delle domande e ad espandere questo tipo di dibattito al di fuori della cerchia di professionisti tecnici.

SEO e WordPress: come partire?

Per fare SEO su WordPress, ci sono diverse cose che puoi fare, per migliorare il tuo sito e quindi aumentare il suo ranking sui motori di ricerca. Innanzitutto, dovresti assicurarti di avere una buona struttura del sito e una navigazione facile e intuitiva. Inoltre, potresti utilizzare un’estensione SEO per aiutarti a ottimizzare i tuoi contenuti.


Per fare SEO su WordPress ci sono diversi modi. Uno di questi è installare un plugin SEO come Yoast SEO, che ti permette di ottimizzare il tuo sito in modo facile e veloce.

Ci sono molti plugin SEO per WordPress che possono essere utilizzati come alternativa a Yoast SEO. Alcune delle opzioni più popolari includono:

  • All in One SEO Pack (in versione gratuita o premium)
  • Rank Math
  • SEOPressor
  • The SEO Framework
  • Google Site Kit
  • SEO Squirrly

Tutti questi plugin offrono funzionalità simili a quelle offerte da Yoast SEO, come il controllo dei metadati, la generazione di sitemap e l’ottimizzazione delle parole chiave. Scegli quello che ritieni possa soddisfare al meglio le tue esigenze.

Una volta che hai installato il plugin, puoi seguire questi passi:

  1. Assicurati che il tuo sito sia facile da navigare e che i contenuti siano ben organizzati, in modo che i motori di ricerca possano facilmente capire di cosa parla il tuo sito.
  2. Aggiungi un titolo e una descrizione univoca a ogni pagina del tuo sito. Queste informazioni verranno mostrate nei risultati di ricerca, quindi è importante che siano accattivanti e che forniscano agli utenti una buona idea di ciò che troveranno sul tuo sito.
  3. Utilizza le parole chiave appropriate in tutti i tuoi contenuti. Se stai parlando di un argomento specifico, assicurati di utilizzare le parole chiave pertinenti in modo naturale nei tuoi titoli, nelle intestazioni e nel testo.
  4. Crea contenuti di qualità. I motori di ricerca premiano i siti che pubblicano contenuti originali e di qualità. Assicurati di offrire informazioni utili e accurate ai tuoi lettori e di aggiornare regolarmente il tuo sito con nuovi contenuti. Anche stile e Tone-of-Voice dovrebbero essere allineati e coerenti.
  5. Ottimizza le immagini del tuo sito. Assicurati di utilizzare nomi di file descrittivi per le tue immagini e di aggiungere i tag alt per ogni immagine. Questo aiuta i motori di ricerca a capire di cosa trattano le tue immagini e migliora la tua visibilità online.

Sono tante le attività che possiamo svolgere: inserire link interni ed esterni, prestare attenzione ai titoli, inserire elenchi puntati e altri elementi che facilitino la lettura, verificare la velocità di caricamento degli elementi nella pagina, etc. Fin qui dunque la parte tecnica che tuttavia deve sempre essere vista all’interno di una visione più ampia.

Non prendiamo come vere tutte le indicazioni che ci vengono fornite dai tools e dai plug-in di cui si è parlato. Ad esempio la keyword density, ossia la presenza di parole chiave in un testo, non è un fattore fondamentale. Le indicazioni del plugin Yoast riguardo la densità delle parole chiave nel testo possono essere tranquillamente ignorate. Ciò che non dobbiamo ignorare invece è il nostro pubblico. Capire come stimolarlo, interessarlo e coinvolgerlo, a volte stupirlo o lasciarlo con un dubbio.

Se sei giunto fin qui ho una rivelazione da farti. Questo breve articolo è stato scritto anche grazie all’utilizzo di ChatGPT. In questo periodo sto sperimentando un po’ di possibili applicazioni dell’Intelligenza Artificiale per la generazione di immagini, come nel caso del mio regalo di Natale ai clienti, e cercando di capire un po’ meglio di cosa si tratta. Per questo sto esplorando il mondo dell’intelligenza artificiale, con curiosità e a volte un po’ di inquietudine, nella volontà di capire come macchine e uomini possano collaborare e per la prima volta me ne sono avvalso per la stesura, in parte, di un testo.

Perché ho deciso di far parlare proprio di SEO a una IA? Chi scrive per il Web sa bene quanto sia importante seguire alcuni principi utili per massimizzare la propria capacità di diffusione tramite motori di ricerca. A volte diamo anche troppa importanza a ciò che può piacere a un algoritmo, dimenticandoci per chi stiamo scrivendo davvero, il nostro target.

L’implementazione delle Intelligenze artificiali nella stesura di un testo potrebbe comportare un ulteriore passo avanti definendo un nuovo panorama nella content creation. Pe esempio potrebbe avvenire una ridefinizione delle stesse modalità di indicizzazione, per favorire maggiormente contenuti utilizzabili dalle stesse IA per generare risposte adatte alle domande dell’utenza.

Voglio lasciare la chiusura proprio a ChatGPT: ecco come terminerebbe un articolo su SEO e WordPress.

Spero che questi consigli ti siano stati utili. In generale, fare SEO su WordPress richiede un po’ di tempo e di impegno, ma può aiutarti a migliorare la visibilità del tuo sito e aumentare il traffico verso di esso.

Metaverso e design tra virtuale e fisico

metaverso - Alessio Conti digital marketing and communication design

Del metaverso si è parlato ampiamente, analizzando le sue possibilità future e attuali. Un aspetto importante che però tengo a sottolineare è come il design, nelle sue diverse declinazioni e settori, sia riuscito a intravedere per primo il potenziale fornito da un mondo costruito su codici informatici e segnali elettrici. Dal fisico al digitale, questa nuova frontiera permette di sperimentare nuovi modi di progettare e riflettere sull’esperienza utente.

Sono già molti gli esempi che ci giungono dagli ambienti della moda e non solo. Anche l’architettura e l’interior design infatti sono diventati elementi centrali che caratterizzano questa nuova tecnologia. Se il Metaverso vuole svilupparsi come mondo parallelo, avrà bisogno di riempire e strutturare i suoi spazi. 

In uno scenario in cui le leggi della fisica possono essere spezzate come grissini, assume tutt’altro senso la classica frase “l’unico limite è la propria immaginazione” e pensando come questa tecnologia si trovi ancora in una fase primordiale possiamo già farci un’idea sul futuro che il design andrà ad assumere.

Quando il marketing si fa mondo (nel metaverso)

Gli esempi più evidenti ed extracitati, come The Sandbox e Decentralend, rappresentano un primo step. Sono mondi messi a disposizione di chiunque voglia immergersi in un ambiente digitale suddivisi per terreni acquistabili ed edificabili. I grandi brand poi si sono impegnati per costruire strutture e spazi tematici per fare del design digitale un’esperienza brandizzata.

Questo è forse una naturale e per certi versi scontata evoluzione del marketing. All’origine era il prodotto il fulcro attorno a cui ruotano tutte le comunicazioni di un brand. Poi, sommersi da migliaia di prodotti tutti simili tra loro, siamo passati a raccontare storie appassionanti e coinvolgenti. Infine, anche quando le storie sono iniziate a diventare troppe, abbiamo deciso che la prossima frontiera sarebbe stata l’esperienza di vita quotidiana del nostro cliente. Con a disposizione interi mondi ora l’esperienza può svolgersi in uno spazio (digitale) progettato ad hoc, in cui ogni stimolo, sonoro e visivo, viene a ricollegarsi a un brand preciso.

Design, marketing, tecnologia. Tre concetti che in questo periodo stanno evidenziando le loro interconnessioni dirette. II nuovi sviluppo tecnologici ci permettono di vedere come la progettazione di una strategia di comunicazione possa assumere una sua concretezza “fisica” in un ambiente digitale. 

Uno step verso la nuova generazione di clienti

Le potenzialità di questo ambiente mirano a coinvolgere un pubblico che non ha memoria di un mondo senza internet e strutture digitali. Infatti bisogna prendere in considerazione che in parte Millennial, Gen Z e Gen Alpha sono e saranno i futuri utenti a cui le comunicazioni saranno rivolte. 

In questo senso si potrebbero interpretare anche le colonizzazioni di ambienti videoludici come Fortnite e Roblox da parte di diversi brand: raggiungere i consumatori nei loro spazi preferiti offrendo esperienze uniche e di valore declinando la propria realtà secondo i codici di questi spazi.

La nuova generazione di consumatori vorrà e potrà godere di nuove tipologie di esperienze d’acquisto? Il metaverso potrà costituire la base di partenza su cui svilupparle? Perché limitarsi a mostrare un prodotto, quando può diventare esso stesso un livello in cui muoversi e fare esperienza? 

L’esempio di Playstation

Playstation, per mostrare tutte le capacità della propria console di ultima generazione, ha sviluppato un intero videogioco, Astro’s Playroom, in cui le componenti hardware diventano livelli da esplorare per portare a termine diverse missioni. In questo modo l’utente non sta semplicemente giocando, sta facendo esperienza del brand Playstation, della sua storia e della sua tecnologia, per comprendere come la realtà virtuale riesca a interagire con il mondo del design espandendo i confini e potenzialità. 

E il mondo fisico resta a guardare?

Un altro aspetto che caratterizza il rapporto tra design e realtà virtuale è anche la stratificazione su più livelli. Infatti finora abbiamo parlato di design con accezione digitale, come ambienti creati tramite software. Per accedervi dobbiamo ricordare che avremo sempre bisogno di un dispositivo materiale tramite cui collegarci e in grado di farci rapportare con le diverse esperienze. Quindi è necessario rivolgere la nostra attenzione anche a questi ultimi.

Che si tratti di realtà aumentata o virtuale avremo sempre bisogno di confrontarci con prodotti fisici. Per quanto riguarda la VR, maggiormente al centro di questa mia riflessione, sono molti i dispositivi che ci vengono messi a disposizione. Primo tra tutti è ovviamente un visore, strumento indispensabile per osservare “l’altro mondo”. In secondo luogo avremo bisogno di un controller per interagire con l’ambiente circostante. Con un intero mondo da esplorare sarebbe limitante non potersi muovere liberamente oppure seguire binari prestabiliti dal software.

Dispositivi per mondi inclusivi

Visore e controller costituiscono i pilastri per poter accedere al metaverso e iniziare a fare esperienza di un metaverso immersivo, ma l’interazione può essere arricchita attraverso altri strumenti che vanno a coinvolgere udito e tatto, per permettere il massimo coinvolgimento dell’utente all’interno di un mondo assente.

Riflettere sulle periferiche esterne è importante anche come esercizio per osservare come si è scelto di rispondere a una serie di bisogni e limiti e quanti ancora devono trovare soluzione per essere soddisfatti. Per esempio, in termini di inclusività, la realtà virtuale immersiva sembra traballare di fronte alla cecità. Questa può portare alla progettazione di esperienze virtuali che fanno del sonoro la loro priorità, più che la vista. 

Quante esperienze virtuali saranno state sviluppate? Quali altre strategie saranno implementate dai brand? Il metaverso sarà diventato un posto più ricco e accogliente? Che passi saranno stati fatti per renderlo disponibile a tutti?

A mio avviso le perplessità restano molte ma è indubbio che molti brand stiano puntando su questa frontiera digitale per progettare esperienze sempre più accattivanti, almeno per alcuni segmenti di pubblico. Non mancano i tentativi andati a vuoto, i detrattori, gli insuccessi commerciali (basti pensare alle previsioni che vedono l’avverarsi del metaverso solo dopo il 2030 o gli scadenti risultati di Meta nell’ultimo anno con relativi annunci di tagli al personale e outlook negativi per i prossimi mesi), ma non per questo possiamo spegnere le luci sulle sue potenzialità.

Ancora una volta il futuro digitale, e non solo, manifesta incertezze e apre a possibilità senza fornire risposte. Il design e l’architettura sapranno approfittare del metatarso? In che modo?

Intelligenza artificiale: quali opportunità?

Possiamo affermare con certezza che l’intelligenza artificiale sia l’occasione del secolo? Come impatterà nel futuro? Davvero il suo potenziale creativo supererà quello di persone in carne e ossa? Le IA ci permettono di capire meglio la natura umana? Com’è possibile regolamentare gli ambiti applicativi di una tecnologia così inserita all’interno della nostra privata e lavorativa?

Venerdì 14 ottobre Club Digitale – Unindustria ha organizzato presso il Tecnopolo di Reggio Emilia un evento in cui si è cercato di rispondere a queste domande su intelligenza artificiale e rapporto con l’innovazione.

Il gruppo di Unindustria promuove e costituisce un luogo di incontro per le imprese dedicato al confronto riguardo ai temi più attuali della Digital transformation. A quest’evento in particolare gli interventi dei relatori hanno riguardato l’intelligenza artificiale. Stefano Quintarelli, Luciano Floridi e Marta Bertolaso hanno offerto spunti apportando contributi di valore nella riflessione-tema dell’iniziativa: può l’AI rappresentare l’occasione del secolo?

Stefano Quintarelli: dati condivisi, garanzie e regolamentazioni

Stefano Quintarelli, imprenditore informatico e Deputato nel nostro Parlamento dal 2013 al 2018, è noto a tutti. A lui si deve la proposta, l’ideazione e lo sviluppo di due tecnologie che fanno parte della nostra quotidianità: lo SPID (sistema pubblico di identità digitale) e l’app IO.

La sua riflessione parte dall’osservare che la grande mole di dati che produciamo ogni giorno e che costituiscono la base per lo sviluppo delle IA sta subendo una prima trasformazione. Nei processi di implementazione di questa tecnologia è la qualità del dato, più che la quantità, a fare la differenza, anche se al momento molte realtà non sono pronte in tal senso. Saper gestire in modo corretto i dati rappresenta per le imprese un modo per arrivare pronte a future evoluzioni tecniche. “Il dato di cui non so cosa farmene oggi può essere il mio strumento più utile domani”. 

Quintarelli ha inoltre evidenziato l’importanza dell’interconnessione tra realtà appartenenti a una stessa filiera per poter ottimizzare e rafforzare la qualità dei dati attraverso la loro condivisione. In questi termini realtà aziendali che utilizzano nuove tecnologie come Blockchain e NFTs per facilitare le relazioni delle supply chain possono risultare la chiave anche per il potenziamento delle IA aziendali. Si tratta di temi che già mi capita di affrontare grazie alla collaborazione con Surge. In un prossimo futuro immagino possano svilupparsi, sulla stregua delle sperimentazioni già in atto per alcune industry, dei veri e propri distretti industriali digitali in cui reti di aziende condividono dati e analisi per potenziare l’intera catena di approvvigionamento, produzione e distribuzione. 

Parlare di IA e dati condivisi rende necessario riflettere anche sui concetti di garanzia e sicurezza. Quintarelli offre come esempio proprio lo SPID e la scelta di renderlo un sistema federato che coinvolge lo Stato e realtà private, diventando così controllori reciproci in materia dei dati dei cittadini. A mio avviso questa scelta di porre società esterne come Identity provider, se da un lato garantisce la sicurezza nei confronti dei cambi di governo, può comunque aprire a altri rischi che è necessario prendere in esame. Certo è che il diritto attuale fondato sulla tripartizione dei poteri, appare insufficiente nell’offrire soluzioni di governance adeguate alle tecnologie contemporanee e alle sfide che portano inevitabilmente con la loro implementazione.

semaforo

Sempre in merito all’Intelligenza Artificiale, Quintarelli osserva come sia importante ragionare sui confini etici di questa tecnologia. Chi intende approfondire può leggersi questo articolo apparso sul BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, n. 3/2019, in cui vengono stilati princìpi, obblighi, diritti e raccomandazioni riguardo la gestione di una tecnologia sempre più presente nella nostra vita di tutti i giorni. Quintarelli è tra i firmatari del manifesto transatlantico contro le minacce dell’IA, redatto insieme ad altri 17 studiosi di tutto il mondo e presentato il 22 ottobre scorso a Roma, in cui si invitano Europa e Stati Uniti a prendere in considerazione le indicazioni offerte “perché, se da un lato l’innovazione tecnologia può rappresentare un motore di crescita economica e sociale, dall’altro può veicolare danni e conseguenze negative per tutta la società”.

Secondo Quintarelli l’IA non è l’occasione del secolo, ma non utilizzarla significherebbe commettere un errore. Ha ricordato come vi sia la tendenza a sovrastimare gli effetti a breve termine e a sottostimare quelli sul lungo periodo. Questo vale per le nostre scelte individuali, nel modo in cui facciamo fronte ai cambiamenti e anche per quanto concerne la percezione dello sviluppo tecnologico. Il rischio reale è che potremmo svegliarci troppo tardi chiedendoci perché non siamo intervenuti prima per regolare il nostro rapporto con l’intelligenza artificiale. 

In tal senso mi pare facciano eco le parole di Massimo Chiriatti in “Incoscienza Artificiale” quando paragona l’algoritmo a un nuovo alchimista.

“Gli algoritmi analizzano le relazioni nei dati – non i valori o il significato che rappresentano. Perciò l’algoritmo non “predice” e non “pensa”, ma si limita a costruire modelli seguendo le nostre orme. […] l’algoritmo è un meccanismo produttivo che usa i nostri dati come materia prima: scova le correlazioni ed estrae le regole. L’IA è quindi una creatrice di regole, seguendo le quali costruisce una sua rappresentazione del mondo. Ma lo fa in modo irresponsabile.”

Luciano Floridi: occasioni che vanno capite

Filosofo, è professore ordinario all’Oxford Internet Institute dell’Università di Oxford e presso il dipartimento di Sociologia della comunicazione dell’Università di Bologna. Il 12 ottobre scorso è stato insignito per decreto del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, del titolo di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito” della Repubblica Italiana, la più alta e prestigiosa onorificenza italiana per coloro che si sono particolarmente distinti nei campi della letteratura, delle arti, dell’economia, del servizio pubblico e delle attività sociali, filantropiche e umanitarie.

Di lui avevo già parlato in questo articolo, quando lo incontrai per la prima volta al Wired Next Fest a Firenze e, nei miei corsi, faccio spesso riferimento ad alcuni suoi concetti. Si tratta di un autore che stimo molto.

Il ragionamento di Floridi parte da una domanda: cos’è l’intelligenza?

Chiedendo a dieci persone diverse probabilmente otterremmo dieci definizioni differenti, tutte corrette ed errate a modo loro. Anche in letteratura scientifica esistono centinaia di definizioni di questo stesso concetto perché di intelligenza se ne può parlare solo al plurale. Ci sono varie classificazioni in base alla tipologia e natura di questa facoltà. per quanto concerne l’intelligenza per così dire, naturale, biologica, organica si parla dunque di intelligenza emotiva, funzionale, matematica, creativa, musicale, etc.

E quando parliamo di intelligenza artificiale cosa intendiamo?

Giungendo a parlare di artificialità legata al concetto di intelligenza si possono identificare due principali tradizioni: una di tipo ingegneristico e l’altra legata alle scienze cognitive. Da un lato abbiamo una scienza che studia l’intelligenza per far si che risolva problemi specifici, dall’altra un tentativo di riprodurre una forma di intelletto umano nella sua intera complessità. Negli anni abbiamo raggiunto grandi traguardi nel campo del problem solving tramite IA, mentre a livello di intelligenze fluida e riproduttiva permangono enormi difficoltà (sarebbe infatti già un grosso risultato riuscire a riprodurre quella di un roditore). Se tuttavia fino a pochi anni fa il consiglio sarebbe stato quello di desistere dal tentativo di applicare l’intelligenza artificiale ad ambiti in cui occorre operare delle scelte non di tipo binario o logico, negli ultimi tempi qualcosa è cambiato. La potenza di calcolo, notevolmente aumentata in meno di un decennio e i dati acquisiti a livello mondiale aprono infatti a scenari inediti, anche in campo imprenditoriale.

Siamo ora di fronte al passaggio di paradigma tra un tipo di Intelligenza artificiale di tipo simbolico (secondo Se>Allora) a una di organico. La rete oggi può infatti contare sull’analisi di un’immensa quantità di dati prodotta dagli utenti del web per proporre previsioni, statistiche, testi, immagini, suoni e molto altro ancora. Lo stesso Floridi evidenzia come l’intera produzione umana, dall’origine della nostra specie fino al 2005, possa essere quantificata in circa 1 o 2 Zettabyte, mentre negli ultimi vent’anni sono stati prodotti dati nell’ordine dei 170 e con una crescita esponenziale (non a caso si parla di Zettabyte Era).

infografica contenuti web al minuto DOMO
Infografica DOMO 2022

A proposito di questa quantificazione, personalmente, nutro seri dubbi. Ho parlato spesso di questi argomenti ma un punto continua a sfuggirmi. Le informazioni non hanno solo un peso, ma anche uno spazio, un tempo, un potere diverso. Quanti MB farebbe la “Guernica”? O la stele di Rosetta? Non stiamo parlando di hard disk o di un router.

Brutalizzare il sapere umano riducendolo a una successione di 0 e 1, a mio avviso significherebbe ridurre la conoscenza alla sua codificazione digitale trascurando la profondità e il suo impatto nel tempo. Credo si debba aggiungere qualche considerazione per evitare scivoloni a mio avviso fuorvianti che potrebbero condurre a un uso un po’ approssimativo del termine “Zettabyte”. Sarebbe come pensare al Rinascimento in termini di metri quadri di affreschi. Possiamo dire certo che in quel periodo a Firenze sono stati dipinti più muri e volte di qualsiasi altro periodo storico ma sarebbe un po’ limitante fermarsi a questa osservazione.

È innegabile che dal punto di vista informativo, l’essere umano stia conoscendo una stagione mai vista precedentemente. Per fare questo però non è necessario scomodare il numero di parole scritte nei codici miniati da un abate del XI° secolo ma è sufficiente far riferimento all’informatica da Turing in poi. Oggi il numero di dati processati, la potenza di calcolo di sistemi informatici e delle reti cosiddette neurali, la qualità e possibilità di connessione tra utenti e device contraddistinguono un mondo in continua accelerazione e di intenso scambio di informazioni.

In uno scenario del genere l’IA, nelle due tradizioni ben descritte da Floridi, si sta evolvendo velocemente: abbiamo tutte le carte in regola, potenza di calcolo e quantità di dati, perché deep learning e machine learning possano attingere a database potenzialmente infiniti.

Tuttavia resto diffidente nei confronti del pensiero di un ente che non conosce o sperimenta la morte, che non ha un corpo, che non conosce il dolore, l’esperienza dell’esistenza (come mi pare abbia problematizzato Byung-chul Han): un’esasperazione del dualismo cartesiano in cui corpo e anima sono scisse per natura (artificiale), il “cogito” nella sua peggior forma. Ne deriverebbe che il bene, per una macchina, sarà un bene molto diverso da quello ritenuto tale da un essere umano. 

Ancora una volta Chiriatti, in un’intervista a Pandora rivista, riprendendo la descrizione dei nostri processi cognitivi secondo Daniel Kahneman, ricorda come al Sistema 1, che funziona automaticamente e rapidamente, e al Sistema 2 che invece svolge attività mentali più impegnative, che richiedono un approfondimento e sforzo cognitivo si sia aggiunto il Sistema 0, chiamato Iasima, che ci aiuta nel prendere decisioni. Iasima è l’intelligenza artificiale esterna al nostro corpo che osserva tutti i nostri atti: li cattura sotto forma di dati che elabora e filtra. Iasima “apprende” ma il termine “apprendimento” rischia di confonderci se pensiamo erroneamente che un mucchio di silicio e bit abbia le nostre stesse caratteristiche. Il Sistema 0 è solo una simulazione del ragionamento umano: le sue non sono “decisioni” vere e proprie.

Nessuno intende negare i benefici che informatica e automazione apportano all’umanità, ma non possiamo certo trascurare anche i possibili effetti nefasti di queste innovazioni, pena la riproposizione 2.0 di un pensiero neopositivista che ritengo abbia già fatto abbastanza danni. Sappiamo, per esperienza ormai tristemente consolidata, che ogni tecnologia è sfruttata quasi sempre e anzitutto per fini militari e poi commerciali, ben di rado a scopi umanitari. Quindi credo che qualche dubbio debba sorgere anche nelle menti più illuminate rispetto all’esaltazione dell’Intelligenza artificiale.

Lasciamo fare alle macchine quello che le macchine sanno fare bene. Archiviare, prevedere eventi pleromatici, forse anche parcheggiare un’automobile ma il creaturale, per utilizzare terminologia di Bateson lasciamolo all’essere umano.

Marta Bertolaso: riflessioni sulla dimensione umana

Marta Bertolaso è docente di Filosofia della Scienza presso la Facoltà di Scienze e Tecnologie per l’Uomo e l’Ambiente e Responsabile della Unità di Ricerca di Filosofia della Scienze e dello Sviluppo Umano dell’Università Campus Bio-Medico di Roma. Mi ha colpito da subito il suo approccio nel rispondere alla domanda dell’incontro. 

L’Intelligenza Artificiale è un’opportunità per cosa? Un’opportunità per chi? 

Non siamo macchine e nemmeno dati. Siamo noi a guidare le IA, costituendo un mezzo per esplorare nuove dimensioni indagando infinite correlazioni tra fattori diversi e lontani, ma poi ne subiamo le conseguenze.

Quanto le macchine stanno cambiando i nostri codici sociali?

La doppia spunta blu di Whatsapp rappresenta per esempio una novità nella comunicazione umana. Sappiamo che il ricevente ha letto il messaggio ma ancora non ci ha risposto. Si potrebbe obiettare che anche una raccomandata con ricevuta di ritorno sortisca lo stesso effetto, ma credo sia inutile evidenziare come il fattore tempo giochi un ruolo in tutto ciò,  tempo che è informativo. Rispondere dopo 5 minuti o dopo 5 giorni è un fatto comunicativo. 

Si chiede inoltre perché permanga un generale stato di ansia, per cui risulta necessario indagare e comprendere nuovamente l’umano che abita gli spazi digitali.

Da qui la proposta di un nuovo modello di impresa e di management. Una leadership generativa, non direttiva e non gerarchica (inefficiente in un contesto VUCA) capace di “tenere i bordi”, prendersi cura degli spazi semanticamente rilevanti all’interno di organizzazioni in un cui non conta la funzione specifica ma la relazione che si costruisce. Una leadership in grado di nutrire un ambiente sano, per uscire dalla paure (del capo, del licenziamento, della pandemia) che ci costringono in schiavitù e liberare il nostro potenziale, le nostra unicità per portare vera innovazione e benessere per sé e per la società. Questo risponde anche alle esigenze emerse nel dopo pandemia quali quiet quitting e great resignation.

Osserva inoltre come la possibilità di prendersi cura di sé, ricercando una propria dimensione anche attraverso il silenzio, sia un fattore essenzialmente umano. Infatti anche in una pausa, un momento di relax e distacco da tutto, l’essere umano sta continuando a ricevere costantemente informazioni, da sé, lo spazio che lo circonda, il proprio corpo e la propria interiorità. Per la macchina invece il silenzio equivale a non esistere, mancanza di input. Un silenzio in una sinfonia è significativo, può creare angoscia, preparare a un crescendo, a un esplosione, ingannarci. Per una macchina una pausa è nulla, solo una serie di zeri nel tempo, mancanza di segnale registrabile. Senza silenzio ci troviamo invece in un horror vacui informativo, che provoca sovraccarico ma non aumento dell’informazione, (motivo per cui da anni mi occupo di digital wellness e di digital detox design). 

“Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?” Così si interrogava Joseph Conrad, l’autore di “Cuore di Tenebra”, il romanzo che ispirò a Francis Ford Coppola il film Apocalipse Now. 

clessidra

Le pause sono tempo di qualità

Bertolaso ha ricordato come in greco antico l’idea tempo potesse essere espresso secondo due accezioni, Kronos il tempo degli Dei, del Dio che divora i suoi figli, quello eterno e per questo privo di senso, urgenza (quello delle macchine) e Kairòs, quello dell’uomo, il tempo finito, quello delle scelte, caratterizzato dalla capacità di cogliere le opportunità del momento, dalla consapevolezza della fine.

“Cerco l’uomo”, rispondeva il povero filosofo che fece scansare l’eroico Alessandro Magno perché gli faceva ombra. Ed è forse tempo, proprio interrogandoci sull’uso dell’intelligenza artificiale, di ritrovare prima un essere che si affranchi all’idea di performance funzionale, il cui valore è dato unicamente da quanto fa, produce, pensa e comunica. Prima di pensare a un futuro co-progettato dall’interazione uomo-macchina occorre forse cercare di evolverci consapevolmente per essere grado di guidare questa rivoluzione.

Digital Divide e Cittadinanza Digitale

digital divide mani aggrapate a una rete di divisione

Il mondo digitale dispiega opportunità incredibili, facilita i processi e gli scambi di informazioni, rimodella la nostra dimensione di vita arricchendola di stimoli, abbattendo barriere. Tutto questo però non certo in modo uniforme e ugualitario. Parleremo di digital divide alla prima edizione della “European Digital Citizenship Day” di cui Social Warning ne è capofila.

Mentre una parte della popolazione padroneggia pienamente gli strumenti, una buona fetta è esclusa da tutto ciò. Con gravi ricadute in termini sociali ed economici.

Siamo davvero pronti a un’Era totalmente digitalizzata? Sarebbe auspicabile uno scenario di questo tipo? Abbiamo il giusto grado di conoscenze e consapevolezza perché questo si realizzi? La risposta per molte realtà è no. Il digital divide è un fenomeno ancora troppo presente.

A livello mondiale le disparità sono incommensurabili. Pensiamo banalmente all’accesso all’istruzione e alle reti, senza tener conto delle limitazioni imposte dai diversi regimi. Anche gli algoritmi in realtà nascondono insidie spesso mascherate da termini come “ottimizzazione dell’esperienza utente” che in realtà propongono e ripropongono post orientati a modificare le nostre emozioni, i nostri desideri e le nostre pulsioni. 

Pensiamo alle difficoltà derivanti banalmente dall’età o dal livello di istruzione, dalle competenze tecniche e dalle capacità cognitive. Pensiamo solo a quanto accade in Italia.

In buona parte del “fu” BelPaese non c’è segnale, manca la fibra ottica e non è raro ancora vedere rabdomanti digitali alla ricerca almeno di un 3G.

In un mondo in cui anche per fare un documento all’anagrafe è necessario registrarsi e accedere con SPID, come intendiamo gestire queste problematiche? Come possiamo assicurare l’accesso democratico all’informazione? Se è necessario garantire la digitalizzazione è altrettanto importante garantire modalità off-line, analogiche di accesso alle informazioni. E ancora: a quali informazioni accediamo davvero? Se Google diviene il principale mezzo di ricerca otterremo sempre gli stessi esiti. Un sapere apparentemente infinito che si riduce ai risultati della prima pagina di Big G. Un po’ triste vero?

Il tema del digital divide è spesso associato alla presenza/assenza di supporti tecnologici ma  come stiamo notando il problema è ben più complesso e ci invita a una riflessione più attenta. Partiamo da alcuni spunti molto concreti.

Il punto sulla nostra situazione sul digital divide

Spesso, lavorando quotidianamente con strumenti digitali, pensiamo di essere in grado di raggiungere chiunque, sempre e in qualunque parte del mondo. Questo perché estendiamo le nostre possibilità, date dal nostro contesto di appartenenza, a tutti gli altri.

Ma dati alla mano la realtà dei fatti è un altra. 

Limitando la nostra attenzione al territorio italiano possiamo scoprire che, secondo uno degli ultimi rapporti Auditel-Censis, nove milioni di famiglie vivono in condizioni di totale o parziale esclusione dalla partecipazione digitale.

Gli scenari poi sono i più vari: da chi non ha accesso continuo alla rete a chi ha una bassa qualità di connessione, a chi riesce ad accedere solo tramite smartphone fino a chi è totalmente escluso.

Possiamo soltanto immaginare la gravità dell’impatto a livello sociale di situazioni così critiche specie durante il lockdown. Infatti se le misure intraprese hanno limitato la diffusione dell’infezione da Sars-Covid-2 dall’altro hanno evidenziato le gravi carenze infrastrutturali del nostro Paese. Il digital divide, come raccontato fin qui potrebbe sembrare solo una questione di strumenti e tecnologie, ma con questo termine si vuole indicare anche il gap al livello di conoscenze legate al mondo digitale.

digital divide folla che cammina per strada

Conoscenza sulla (dis)connessione digitale

Sviluppare una consapevolezza digitale implica prendere atto di queste situazioni. Limitare lo sguardo ai benefici e problemi causati della connessione, pur analizzando pro e contro, non ci restituisce comunque una visione di insieme sull’argomento. 

Proprio come nella letteratura positivista, in cui il focus è sulla portata innovativa di nuove tecniche e sviluppo sociale, anche oggi si costruisce una narrazione in cui il progresso tecnologico ci salva. Ma è davvero così?

Si possono conoscere tutti i migliori modi per sfruttare il mondo digitale a nostro vantaggio, aiutandoci nella vita quotidiana e sul lavoro ma possiamo essere coscienti anche di come Web e social possono diventare una gabbia.

Come ci insegna Verga, è necessario rivolgere lo sguardo ai grandi esclusi dalla strada del progresso. Questi vinti che non avevano già gli strumenti per lottare e che ora si trovano a confrontarsi con un mondo accelerato e complesso in cui le nostre capacità di comprensione dei fenomeni e di adattamento sono perennemente sotto stress. 

Io personalmente ho vissuto un’esperienza la scorsa estate che mi ha aperto gli occhi. Ho conosciuto un ragazzo di vent’anni italiano che parlava solo il suo dialetto locale e che sentendomi parlare in italiano e con un accento emiliano insisteva sul fatto che io fossi straniero. Pochi minuti prima stavo parlando di applicazioni su base blockchain e di futuro digitale mentre un’ora dopo mi trovavo al tavolo con turisti americani e australiani parlando in inglese. 

Lì ho capito che ci sono mondi che nemmeno si sfiorano, non si possono compenetrare e che i codici sono talmente diversi da rendere impossibile una comunicazione verbale. Ho anche capito quanto sia ignorante io, quante cose avrei da imparare da quel ragazzo che vive in una dimensione a me estranea e non lo dico da romantico nostalgico o rapito dal mito del selvaggio. Davvero mi parlava di un mondo a me sconosciuto, di pratiche di gioco, passatempi e silenzi che io non conosco, né potei mai conoscere in quei termini. I filtri ormai sono troppi e le associazioni al neorealismo o alle interviste di Pasolini nell’Italia degli anni ’60 sono state immediate. Il digital divide non è una discussione filosofica, è qualcosa che scava profonde ferite nella società. 

Ammettiamo questo esempio. Vivo in un piccolo borgo di montagna con pochi negozi. Se ho accesso alla rete e so utilizzare marketplace e pagamenti digitali posso trovare qualsiasi bene materiale o servizi anche di alta qualità e a costi inferiori. Viceversa dovrò accontentarmi della ridotta offerta commerciale in loco. In realtà i costi non sono solo economici e le ricadute a livello più ampio sono diversi per cui ci potremmo, e dovremmo interrogare, maggiormente su quello che accade nel momento in cui le attività di paese chiudono, o sul perché queste enormi Società quali Apple, Amazon e Google riescano ad approfittare di agevolazioni fiscali surreali (come spiegato bene da Riccardo Staglianò in “Gigacapitalisti”) mentre il bottegaio debba confrontarsi con aliquote a volte demotivanti.

Per ora ci soffermiamo sugli aspetti legati al primo livello, quello legato alla reiterazione e al rafforzamento delle disparità, per il semplice fatto di essere o non essere digitali.

Infatti il digital divide non è solo una causa dell’esclusione sociale: è anche un sintomo che si sviluppa da mancanze pregresse alle quali poi si aggiunge, andando a creare un ciclo vizioso dal quale diviene sempre più difficile tirarsi fuori.

digital divide rocce in equilibrio

Possiamo essere tutti cittadini europei digitali?

Questa è una domanda da porsi in vista del 22 Ottobre, Giornata Europea della Cittadinanza Digitale. In base a quanto osservato poco sopra, possiamo esserlo se chiudiamo gli occhi e tappiamo le orecchie, in modo da non vedere e ascoltare chi si trova in grave difficoltà, in un mondo che gli chiede di essere digitale, ma senza dare strumenti per esserlo. Non serve andare lontano. Abbiamo quasi tutti in famiglia una persona anziana o poco digitalizzata che ci chiede un aiuto con lo SPID o per accedere a un servizio online.

È evidente quindi che la risposta non può limitarsi a fornire buone connessioni e device per accedere alla rete. 

Se forniamo a un falegname e a un social media manager una sega elettrica, chi troveremo più facilmente al pronto soccorso, magari senza un dito? Esatto. Uno strumento potente in mano a persone che non hanno le corrette informazioni per utilizzarlo per rivelarsi un’arma con cui si può e ci si può fare del male. Quindi da dove partire per formare cittadini digitali, se non dall’insegnamento?

Comunicare il futuro con Movimento etico digitale 

Proprio dell’istruzione all’utilizzo degli strumenti digitali si occupa il Movimento etico digitale. Davide Dal Maso, ideatore del movimento, sui banchi di scuola ha preso consapevolezza dell’inefficienza delle lezioni legate alla sensibilizzazione al mondo digitale molto spesso impartite da figure lontane anni luce dalla realtà più attuale, non in grado di rispondere alle vere necessità di studenti nativi digitali, che riducono il tema del web alla pedopornografia o al cyberbullismo, problemi gravissimi ma grazie al cielo residuali rispetto ad altri ben più diffusi e spesso difficili da cogliere nella loro complessità.

Come riconoscere fonti affidabili di informazione? Come mantenere la propria privacy e rispettare quella degli altri in una realtà fondata sulla condivisione? Perché i social polarizzano le opinioni rendendoci meno sensibili alla diversità? Questi sono alcune questioni che hanno bisogno di essere approfondite. 

Dal Maso, e con lui tutto il movimento di cui anche io faccio parte, ha deciso di promuovere un insegnamento che coinvolge coetanei e professionisti del web per offrire risposte mirate alle diverse esigenze in continua evoluzione di studenti e anche genitori. Un dialogo, più che una lezione, tra giovani, dove ognuno mette a disposizione degli altri le proprie conoscenze e si rende anche disponibile a rivederle. 

Parlare dei rischi (senza creare timori o allarmismi) e delle potenzialità (aprendo a nuove prospettive) del Web è possibile. Nei miei corsi sul Digital Detox e benessere digitale non invito mai a prendersi un mese di ferie in completo isolamento nella natura selvaggia. Questo perché non è più in linea con il mondo che viviamo oggi, che ci richiede, per lavoro e vita privata, un certo grado di connessione. Allontanarsi completamente dalla quotidianità non è la risposta per cambiare le proprie abitudini, anche quelle digitali. Può essere utile, è vero, un momento di disintossicazione ma poi è importante implementare buone abitudini nella propria vita quotidiana, un po’ come per chi deve perdere peso o fare più attività fisica. A poco basterà una settimana di privazioni mentre l’adozione di comportamenti virtuosi nel quotidiano ci permettono di raggiungere risultati migliori e più duraturi, e di concederci ogni tanto anche una fetta di torta o un giorno di dolce far niente. Il primo passo è quindi riconoscere la necessità di un cambiamento e poi capire come attuarlo. 

Di questo parleremo il prossimo 22 ottobre Milano, un evento dal vivo promosso dal Movimento Etico Digitale proprio per riflettere sul rapporto tra educazione e cittadinanza digitale, guardando al futuro dell’istruzione in un mondo in continua evoluzione, per riflettere insieme su come stimolare il dialogo tra generazioni e sulle nuove responsabilità portate dall’abitare online.

Patagonia e KFC: buono e cattivo Brand activism

brand activism

Abbiamo potuto leggere numerosi articoli su Patagonia, il suo fondatore e la cessione della quasi totalità delle azioni a un Ente no profit per combattere il cambiamento climatico. Per questo motivo ho voluto estendere la riflessione, mettere a confronto due realtà guardando a come gestiscono (o provano a gestire) strategie di Brand activism. Perché se tutti possono sostenere una causa, in pochi sanno farlo bene.

Il fondatore di Patagonia ha trasferito il 98% delle sue azioni a un Fondo e un Ente per combattere il cambiamento climatico. La notizia è stata trattata come decisione rivoluzionaria, qualcosa che apre la strada a un nuovo modo di pensare di fare impresa. Questo è tuttavia solo l’ultimo step di una società che da sempre si è distinta nel mondo della moda, non limitandosi ad azioni sporadiche ma facendo del brand activism uno dei propri punti di forza. 

Ne parlo spesso nei miei corsi. Patagonia non è insolita infatti a campagne di sensibilizzazione sui temi ambientali. Alcuni di voi forse ricorderanno quella di “Don’t buy this Jacket” o le pagine sul sito durante le elezioni USA in cui si elencavano, indipendemente dal colore politico, i nomi dei candidati che si impegnavano contro il global warming.

A questo punto della storia però accade qualcosa che cambia ulteriormente le regole del gioco. Yvon Chouinard non sarà più il proprietario dell’azienda, ma supervisionerà il nuovo Fondo nato ad hoc, la Patagonia Purpose Trust, per garantire che i ricavati vengano devoluti per la causa che ormai segue da decenni. Attenzione, non è certo la prima volta che un imprenditore cede tutto a una Fondazione, spesso anche solo per vantaggi dal punto di vista fiscale, e si dedica ad attività filantropiche. Questa volta però c’è qualcosa di più e di diverso.

Facciamo un passo indietro per conoscere la vita del fondatore del brand prima ancora della nascita di Patagonia stessa. È in questo modo che troviamo la chiave di lettura corretta per comprendere questa sua ultima decisione. 

"Don't buy this Jacket" Patagonia Brand activism

L’attivismo prima del Brand

Nel 1947 Yvon inizia ad arrampicare e questo sport lo porta a vivere a stretto contatto con l’ambiente naturale che impara ad amare e rispettare. Col tempo inizia a studiare e produrre attrezzatura da arrampicata, arrivando a fondare, nel 1957, una prima attività commerciale. Col passare degli anni si accorge però che i chiodi utilizzati per le scalate stavano danneggiando quello stesso ambiente capace di regalargli grandi emozioni. Per questo motivo introduce intorno nei primi anni 70 nuovi modelli meno dannosi, sviluppando anche il concetto di “scalata pulita”. 

Questo è il primo segnale che ci permette di comprendere meglio le sue azioni successive.

Perché andare verso il Brand Activism

Un amore disinteressato per l’ambiente, presente ancora prima dello stesso brand: questo è ciò che definisce la potenza di Patagonia, portandola ad essere universalmente riconosciuta come una tra le prime “attività attiviste”. Infatti l’attenzione che Yvon riponeva nella produzione di attrezzatura che non impattasse sulla roccia si è trasferita nelle linee guida che hanno mosso l’azienda d’abbigliamento sin dalla sua nascita.

Patagonia non è solo un brand attento al suo impatto sull’ambiente: cerca attivamente soluzioni per far si di produrre un cambiamento sensibile. Questo discorso si inserisce a pieno in una fase di transizione che il mondo dell’imprenditoria che il marketing, quello buono, non può ignorare. Ormai costruire un’identità di marca unicamente attraverso i propri prodotti o servizi sta diventando via via insufficiente.

I consumatori si aspettano sempre più partecipazione da parte dei brand all’interno delle questioni sociali. I marchi non sono più considerati entità scollegate dal mondo, sono pienamente immersi nella contemporaneità e hanno più possibilità di introdurre un cambiamento, spesso più della stessa politica che si dimostra farraginosa, lenta e spesso insensibile rispetto ai temi che la società civile sente sulla propria pelle. Per un brand oggi è necessario prendere posizioni chiare e portarle avanti con coerenza: non agire è peggio che scendere in campo per la squadra avversaria.

Non tutte le attività possono divenire la nuova Patagonia, certo non dal giorno alla notte. Ciò che è alla portata di tutti invece è iniziare a muoversi concretamente, seguendo una causa e attivandosi per prendere parte a segnare il sentiero da intraprendere.

Ma come fare?

Evitare il “causa”-washing

Attivarsi per una causa a livello aziendale è una questione seria. Numerose attività si sono affacciate a questa strategia venendo solo un’ulteriore possibilità di marketing, portando addirittura alla creazione di un termine per indicare questo esatto comportamento: il [inserire nome della causa]-washing. Troppe volte infatti ci si trova di fronte ad azioni meramente di facciata, talvolta ridicole, altre volte capaci di compromettere la fiducia nel brand.

Essere accusati di sostenere una causa solo a livello superficiale può costituire un grosso danno di immagine, a volte difficilmente riparabile. Il primo consiglio che mi sento di dare è non avvicinarsi a questa strategia senza aver prima sviluppato una profonda consapevolezza su ciò che significa supportare attivamente una causa. In poche parole non inventarsi nulla, non raccontare bugie, non cavalcare onde emotive e non mentire rispetto a sé stessi e al proprio pubblico. Vero è che il consumatore medio può essere distratto o acritico ma prima o poi i nodi vengono al pettine e quando ciò accade, nell’era dei social, sono c****, per dirla in francese.

Da qui deriva anche un secondo punto: non bisogna avere fretta. Anzitutto perché comprendere quali cause supportare è un percorso interno, un guardarsi prima dentro, in modo sincero e poi diffondere all’esterno il messaggio trovando le parole giuste, curando ogni aspetto, prevenendo eventuali obiezioni e nella consapevolezza che, per quanto si facciano degli sforzi, si può sbagliare. Cercare di velocizzare il processo rende solo evidente che il fine ultimo non è garantire supporto, ma cercare di emergere, autocelebrandosi, e non è proprio il caso.

brand activism

Una volta deciso di intraprendere il percorso in una determinata direzione è necessario fornire con costanza prove del fatto che si sa andare oltre le semplici parole. Questo non significa imbarcarsi necessariamente in grandi attività. Possiamo partire dalla riorganizzazione interna, o da buone pratiche di ufficio o ancora dall’implementazione di regole più ecosostenibili, inclusive e rispettose. Cominciare con piccoli gesti e consolidarli nel tempo è già un segnale positivo. 

Infine, bisogna avere il coraggio di ammettere i propri errori: tentare di nasconderli sarebbe peggio. Questo perché evidenziare in prima persona dove si sbaglia è anche segno di un’auto-osservazione che implica un’attenzione particolare per il proprio percorso. 

Lo sa bene chi fa marketing. Poniamo grande attenzione a tanti dettagli ma qualcosa può sempre sfuggire o avrebbe potuto essere realizzato meglio. Capire dove si sta sbagliando, comunicarlo e perché no coinvolgere il proprio pubblico nel processo di miglioramento chiedendo consigli può aiutarci a fare bene, con umiltà e determinazione.

Un caso esemplare (di pink-washing): KFC contro il cancro al seno

Uno degli esempi più famosi di ciò che non è brand activism ci è stato fornito da KFC, catena di fast food specializzata in pollo fritto.

Nel 2010 annuncia che per ogni secchiello di pollo fritto acquistato avrebbe donato 50 centesimi a un’associazione di volontariato per la lotta contro il cancro al seno. Per l’occasione avevano prodotto anche dei secchielli rosa (e di che colore se no?) per promuovere la campagna e il risultato fu una donazione complessiva di 4 milioni di dollari. Tutto fantastico, vero? Sì, se non per due grandissimi problemi venuti a galla successivamente.

In primo luogo il Washington Post ha evidenziato come la donazione complessiva venne eseguita prima della fine effettiva della campagna. Ciò significa che il numero di secchielli acquistati non avrebbe influenzato la somma totale, ma solo i guadagni di KFC. Se questo punto era più una mossa nascosta, al limite perdonabile in virtù della bontà dell’azione nel suo complesso, il secondo problema era invece alla luce del sole. In molti hanno criticato l’operazione (in effetti non ci vuole proprio un nutrizionista per capire che pollo fritto e prevenzione di malattie gravi non vanno proprio a braccetto insieme). Tutti sappiamo infatti che il fritto non rappresenta certamente una buona base per la propria alimentazione e che va limitato. Secondo alcuni studi inoltre, è tra le cause indirette del cancro.

KFC secchiello rosa brand activism
Il secchiello rosa della campagna incriminata

La donazione quindi, pur rimanendo indiscutibilmente generosa, è passata in secondo piano rispetto alla poca bontà della campagna, diventata una dei più famosi casi di pinkwashing. 

Diverso sarebbe stato il caso in cui KFC avesse scelto di cambiare ingredienti o di proporre alternative più salutari per incentivare abitudini alimentari corrette, fare prevenzione e sostenere migliori stili di vita. Avrebbe potuto anche scegliere una strada alternativa, facendo ammenda e dichiarando che, pur proponendo un menù non caratterizzato dall’essere salutista, questa volta mangiare pollo fritto avrebbe fatto anche del bene. 

Questo è solo un esempio, tra i tanti, che permette di comprendere come senza una reale riflessione a monte, operazioni di questo genere possono portare a risultati non solo deludenti ma controproducenti. 

Come consulente marketing credo profondamente in un approccio orientato a creare valore aggiunto attraverso azioni reali che possano lasciare un segno positivo per la società, l’ambiente, gli animali non umani, i diritti ma ho anche desistito dal farlo con brand che non erano pronti. Occorre maturità, impegno, serietà, costanza.


Quanto più vogliamo impegnarci quanto più dobbiamo prima crescere come organizzazioni e come persone. 

Il meglio di TEDxReggioEmilia 2022 (per me)

Una selezione delle migliori idee che mi porto a casa per “ripartire” con TEDxReggioEmilia. Un racconto incompleto e parziale che non intende essere un resoconto della giornata (troppe sarebbero le cose da dire) ma mettere in luce cosa significhi essere volontario e portare alcune delle riflessioni dei migliori talk.

Avere la possibilità di vivere lo spettacolo dietro le quinte, conoscere l’impegno e la fatica di un team di persone che mettono a disposizione le loro competenze per la realizzazione di questa giornata, emozionarsi, fare squadra: vivere un evento TEDxReggioEmilia permette di fare un’esperienza che mette in gioco tanti saperi e tante capacità.Una ricetta che ogni volta si rinnova ma che non cambia nei suoi 4 ingredienti tutti ugualmente importanti: gli speaker, i volontari, i partner e il pubblico.

Come ho raccontato in precedenza, questi elementi sono la forza di TEDxReggioEmilia, un evento capace di far dialogare esperienze e prospettive diverse per diffondere idee e ispirare le nostre menti. Non mi riferisco unicamente ai talk che si sono susseguiti durante la giornata ma anche a tutto ciò che avviene all’interno del team, le ore spese a cercare le parole più adatte, a confrontarci sugli aspetti logistici, di comunicazione, sui gadget, i rapporti con la stampa. Scintille, lampi, abbagli, bagliori, errori, idee brillanti che portano a costruire un progetto sempre diverso, vivo e procreativo.

Uno scambio di energie e idee che coinvolge anche i partner che intuiscono e abbracciano la filosofia TED divenendo parte attiva nel processo organizzativo. Senza di loro TEDxReggioEmilia non sarebbe stato lo stesso. Con loro ci siamo incontrati venerdì sera, in un evento dedicato a conoscerci meglio e dove è stato possibile interagire con i veri protagonisti, i relatori, che anche quest’anno, hanno saputo portare luce su aspetti bui, speranza laddove un presente dispotico pare averne cancellato la presenza, fotografie di mondi negati, invenzioni che mirano a migliorare la vita di milioni di persone nel mondo.

TEDxReggioEmilia 2022 ripartire
Evento presso Showroom Smeg – Credits: Laura Sassi

Una diffusione di idee che ha voluto abbattere tante barriere. L’evento è stato realizzato anche grazie al supporto di volontari e volontarie con disabilità, alle parole scritte dei membri di ragazzi “Indomiti – Il Giardino del Baobab” e ai gesti dei traduttori LIS (lingua italiana dei segni).

Ripartire. Sì ma da quando? Da cosa? 

Questa la domanda che ci siamo posti e che Marco Paolini ha ripreso per il suo intervento. Dalla rivoluzione agricola? Dal dopoguerra? Dal crollo dell’Impero romano? Da oggi? Non siamo di fronte alla prima guerra, al primo olocausto o alla prima epidemia e nemmeno ai primi catastrofici effetti dell’azione umana sull’ambiente. Eppure oggi abbiamo un’opportunità in più per interrogarci sul segno che intendiamo lasciare nel tempo che ci rimane. Ne hanno parlato 11 persone, 11 voci, 11 universi collegati dal tema della ripartenza.

Cure all’infodemia, sedie a rotelle speciali, giovani e politica, “No” creativi, ricerca clinica sull’Alzheimer, emergenze climatiche: questi sono alcuni dei temi affrontati dagli speaker.

Tutti interessanti e tutti meritevoli di essere visti e ascoltati. In questo mio personale e parziale racconto ne scelgo tre. Tre interventi che hanno lasciato un segno, che sento il bisogno di riportare, di mettere nero su bianco. Riflessioni presenti in me e che attraverso di loro hanno potuto trovare la forma di espressione più efficace.

Da un racconto migliore

“Quando mi hanno invitato per parlare di ripartenza non ho pensato al Covid. Vivo in Paesi in cui il virus è un lusso”. Con queste parole si presenta Francesca Borri, giornalista di guerra in Medio Oriente e non solo. Ha viaggiato e raccontato attraverso i suoi testi e le sue fotografie tanti conflitti dall’Afghanistan all’Egitto passando dalla Palestina e dall’Ucraina. Ho avuto il piacere di conoscerla venerdì, all’evento organizzato da Smeg, e mi ha da subito colpito. Il giorno dopo mi ha commosso. Nulla mi fa tremare come la verità.

Attraverso i suoi minuti sul palco ha espresso la contrarietà a un modo di fare giornalistico Occidente-centrico che vorrebbe ci fosse sempre una sola verità senza tenere conto della complessità del reale, ignorando l’alternarsi di ruoli tra carnefici e vittime. 

Francesca Borri a TEDxReggioEmilia - Credits: Giovanni Speziale
Francesca Borri a TEDxReggioEmilia – Credits: Giovanni Speziale

Lei è una davvero tosta. Lo sguardo è fermo, le emozioni misurate e per questo colpiscono ancora di più. Non vuole sorprendere, non vuole intrattenere, non vuole elogiare il suo lavoro. Ti dice quello che vede, che vive sulla pelle. Sì, perché lei il giornalismo lo vive, non lo fa. È una che quando tutti cercano di fuggire da Kabul, ci va a vivere, che non accetta narrazioni edulcorate, che è capace di criticare le Istituzioni, che può intervistare un dittatore come un profugo. I suoi modi e le sue parole mi hanno ricordato la visione e l’impegno di Tiziano Terzani o di Oriana Fallaci (almeno di una parte del suo lavoro).

Per lei, come per loro, raccontare il conflitto come un “noi contro loro” costruisce una visione limitata della situazione che non si apre oltre al fronte armato. Per capire la crescente emergenza afgana è necessario uscire da Kabul e chiedersi come sia la situazione lì, in un territorio che circonda lo scontro. Per lei ripartire dunque è sinonimo di ridistribuzione del racconto. 

TEDxReggioEmilia 2022 ripartire
Io con Marco Tasselli e Federica Firgnoli di Input Idea in compagnia di Francesca Borri – Credits: Laura Sassi

Da una rivoluzione

Luciana Castellina sa accendere una folla come se a parlare fosse una ragazza di vent’anni, stanca di un mondo politico che non la rappresenta. 93 anni, una lucidità e una fermezza nella parola da far invidia a un trentenne. Guarda in camera con uno sguardo capace di smuovere gli animi, di far sorridere, di trasmettere valori e punti di vista che guardano al futuro. Nessuno come lei è riuscita a parlare di futuro. Forse guardare oltre è come saltare lontano: occorre una bella rincorsa. 

Oggi, come durante la sua intera carriera politica, vede nella rivoluzione e nella protesta gli unici strumenti in mano ai giovani per cambiare un modello di vita, di consumo e di produzione rimasto ancorato a un tempo passato, un modello per il quale non è facile trovare un’alternativa, seppure necessaria. In gioco ci sono questioni che vanno oltre a problemi immediati, eterna prerogativa della classe politica attuale. Non di tratta di bonus o di caro-vita ma di visione.

La sua risposta per ripartire arriva sotto forma di attacco indiretto a una generazione che credeva di aver fatto la rivoluzione e ora si ritrova a guardare nostalgicamente al passato. “Mi sento in grado di parlare solo con chi ha meno di 25 anni” dice tra le risate e gli applausi del pubblico. In queste esatte parole mi sono ritrovato. Percepisco vividamente la noia e la morte dell’anima quando parlo con qualcuno della mia età, una malinconia spesso frutta di perdita di memoria storica, un piagnisteo logorante di cui io stesso mi sono fatto amplificatore. 

I giovani non sono insensibili alla politica. Semplicemente non sono interessati a questa politica e portano avanti le loro battaglie in altri modi, sebbene spesso inascoltati dal main stream o trattati con sufficienza o celebrazioni da talk show. 

Io personalmente amo collaborare e confrontarmi con persone giovani che spesso trovo talentuose, creative, capaci e di grande ispirazione. E se non sanno cose che io so non ce ne vedo più il problema. Potrò forse trasmettere qualcosa ma soprattutto posso aprirmi a ciò che io non conosco.

Marco Paolini a TEDxReggioEmilia - Credits: Giovanni Speziale
Marco Paolini a TEDxReggioEmilia – Credits: Giovanni Speziale

A partire dai luoghi

A chiudere l’evento Marco Paolini, che del palco per diffondere idee ha fatto la sua vita. Ha iniziato il suo intervento chiedendoci da quando saremmo dovuti ripartire. Trovare un punto fisso nel tempo in cui dire che tutto quello che è venuto prima è il passato e ciò che verrà dopo il futuro. Siamo abituati a darci coordinate temporali in base al presente. Il covid, la guerra in Ucraina non sono la prima pandemia e il primo conflitto a cui assistiamo.

Alla memoria non possiamo fare affidamento, perché con gli anni si sporca di nostalgia, modificando ciò che è stato. Le previsioni sul futuro sono inadeguate, cambiano velocemente come le scelte politiche dell’elettore medio italiano. Per Paolini il futuro è un lutto attuale, e come tale abbiamo due strade: elaborare o rimuovere. Per tutti questi motivi bisogna chiedersi piuttosto da dove ripartire, inteso concretamente come luoghi, spazi in cui ritrovarsi per fare cose. Creare legami dal basso per poter fare vera politica.

Per reinventare il futuro

Filo conduttore di questi interventi, come di altri, è la presa di coscienza di un innegabile fallimento di un sistema incapace di reggere i nuovi cambiamenti. Non bisogna farne una colpa, niente in questo mondo cresce all’infinito, tutto ha una data di scadenza. Chi continua a nutrirsi di un modello che ha ormai dimostrato tutta la sua fragilità e le sue demenziali contraddizioni, deve accettare che non siamo più disposti a intossicarci, accettando in silenzio perché sprovvisti di soluzioni alternative. Ripartire è sempre una sfida ardua ma non per questo impossibile e per farlo occorre, come sempre, cominciare da sé e dalle comunità, dai paesi, le vie che amiamo, dai parenti, gli amici, i passanti.

Mi fermo qui. Grazie ancora una volta a tutti i volontari, a Laura Credidio che da 11 anni profonde un impegno infinito nel tenere le fila di questa iniziativa, a Riccardo Staglianò, curatore di questa edizione, e ai miei amici di Input Idea che quest’anno, insieme a Mattia Cavazzoli, hanno reso ancora più speciale un’esperienza già unica.

TEDxReggioEmilia 2022 ripartire
Team TEDxReggioEmilia – Credits: Laura Sassi

TEDxReggioEmilia 2022: ripartire (insieme, sempre, comunque)

Ripartire TEDxReggioEmilia

Anche quest’anno ho il piacere di prendere parte attivamente nell’organizzazione dell’evento TEDxReggioEmilia, con amici, volontari e un gruppo di collaboratori sempre più grande e unito.

Il 24 settembre, al Centro Internazionale Loris Malaguzzi a Reggio Emilia, scrittrici, attiviste, ricercatrici, politiche e molti altri ospiti apriranno una finestra sul loro mondo. Tema comune: ripartire. E io mi chiedo come possiamo farlo, se non insieme?

(ri)Partiamo dagli ospiti

Le idee, che ispireranno il pubblico sul “ripartire” con questa nuova edizione del TEDxReggioEmilia, prenderanno forma dalle parole di Luciana Castellina, classe 1929, una delle donne che hanno segnato la storia del panorama politico italiano. Interverranno poi la semiologa e professore associato dell’Università di Bologna Anna Maria Lorusso e Alice Bottaro, creative director di campagne pubblicitarie globali; la corrispondente di guerra Francesca Borri, il Premio Campiello Simona Vinci, la neurologa reggiana Giovanna Zamboni, conosciuta e livello internazionale per la sua ricerca sulle malattie neurodegenerative. 

Saranno presenti nel roster anche la global leader di intelligenza artificiale Francesca Rossi, Diletta Bellotti, attivista politica contro le agromafie e Martina Comparelli attivista dei Fridays for Future. Infine, l’attore e regista Marco Paolini, campione del teatro civile, con le sue profonde, intense e graffianti riflessioni. 

Le loro voci si alterneranno sul palco di quest’evento con storie brillanti, intense, audaci ed emozionanti, che parlano in modo inclusivo e dirompente di cambiamento nelle sue varie declinazioni. 

Ripartire TEDxReggioEmilia 2022
Gli ospiti di TEDxReggioEmilia 2022

L’ABC del ripartire: accessibilità, inclusione, sostenibilità

TEDxReggioEmilia nel corso dei suoi 11 anni è cresciuto e maturato. Osservando di anno in anno limiti e problematiche, ci siamo impegnati per promuovere un evento capace di cogliere le diverse sensibilità. Perché TED è anche parlare di tutto, con tutti.

Faranno parte del team di volontari un gruppo di persone con disabilità che daranno il loro contributo nell’organizzazione dell’evento. L’evento sarà accessibile alle persone sorde grazie alla presenza di interpreti Lis. Anche Art Factory 33 parteciperà all’evento, un laboratorio di disegno e ricerca visiva che dà spazio alla creatività nata dall’incontro tra bellezza e fragilità. 

Non mancherà inoltre un manifesto sul linguaggio inclusivo che ispirerà le idee sul palco e guiderà la comunicazione dell’evento. Infine, in continuità con le precedenti edizioni, stiamo riducendo al minimo i materiali stampati, offriremo al pubblico gadget nati dall’upcycling e compensando le emissioni di CO2.

La prima edizione con un partner speciale

Menzione d’onore per un partner che ha preso per la prima volta parte all’evento. Input Idea è una realtà nel mondo della comunicazione digitale con cui collaboro da alcuni anni. 

Quest’anno ha scelto di mettere a disposizione le sue competenze, la sua passione e il suo entusiasmo per aiutare nella comunicazione dell’evento. Con un team giovane e desideroso di crescere ed esprimersi, cura la campagna e presenza social dell’evento, in collaborazione con tutto il team, dialogando con i main partner, offrendo supporto nella costruzione dei contenuti digitali e partecipando attivamente nelle fasi preparatorie.

Un gruppo in costante movimento, che non si ferma sui propri risultati e cerca ogni giorno di portare qualcosa di nuovo all’interno della loro agenzia. Che sia un aggiornamento social, una curiosità dal mondo tech, modalità di lavoro sperimentali o semplicemente qualcosa di nuovo che desiderano condividere, Input di ieri non è mai uguale a quella di oggi. 

Insieme a Input Idea, anche Mattia Cavazzoli, con cui ho il piacere di collaborare da qualche mese e che si è appassionato alla causa, mettendo impegno costante e tanta creatività nella stesura degli articoli e nel proporre nuove idee arricchendo ulteriormente tutto il gruppo.

Ripartire TEDxReggioEmilia 2022
Il pubblico del TEDxReggioEmilia 2020

Ripartire insieme quando sembra impossibile

In un mondo che tende più facilmente alla disgregazione, in cui le relazioni richiedono sforzi a cui non siamo più abituati e una presenza costante per essere coltivate, la fiducia nel concetto di gruppo spesso diminuisce. TEDxReggioEmilia invece rimane e anzi si rafforza. Forse proprio perché più che un evento, è una prova costante del “fare comunità” che ogni anno, con grande piacere, riusciamo tutti insieme a superare. 

La sua organizzazione ci mette in gioco, portandoci fuori dagli spazi chiusi delle nostre case, in un mondo in cui le cose possono accadere stando insieme. Ci poniamo obiettivi comuni, condividiamo valori che costruiscono ponti sopra cui incontrarsi, conoscersi e capirsi. Vivere TEDxReggioEmilia come volontario, così come nelle precedenti edizioni, significa apprezzare questa sua bellezza che va oltre lo slogan di “Ideas worth spreading”. Infatti prima ancora che con le idee si entra in contatto con le persone e i loro punti di vista, intrecciando vite diverse con un obiettivo comune. 

Anche se lungo il percorso possono presentarsi ostacoli, complessità e incomprensioni, chi fa parte di TEDxReggioEmilia, come per gli altri gruppi in tutto il mondo, sa promuovere l’ascolto e il rispetto. Questi aspetti sono la chiave per instaurare un dialogo capace di creare eventi unici, scintille e motori di un processo collettivo che vuole indagare la realtà senza affidarsi a narrazioni stantie, alla scoperta di nuovi orizzonti. 

Il 24 settembre ripartiamo, ancora una volta mettendo insieme tante storie, persone e idee per reinventare il mondo, almeno un po’.