ChatGPT ha riaperto (si era mia chiuso?) il dibattito sulla cosiddetta Intelligenza Artificiale.Tutti ne parlano e anch’io ho voluto dire la mia in merito alle prospettive a cui l’intelligenza artificiale ci espone. Non mi sono fermato qui. Ho iniziato a fare qualche piccolo esperimento e i risultati sono tutt’altro che scontati.
Facciamo un passo indietro.
Cos’è ChatGPT?
ChatGPT è il chatbot di intelligenza artificiale di cui il mondo intero parla e che in meno di un mese ha già milioni di utenti. OpenAI l’ha presentato lo scorso 30 novembre con un comunicato di una chiarezza e di una brevità unica: “We’ve trained a model called ChatGPT which interacts in a conversational way”. Nel suo nome dichiara la sua peculiarità: Generative Pretrained Transformer (GPT). Si tratta di un chatbot, basato su GPT3, che indica un modello di linguaggio capace di generare comunicazione usando il deep learning e di creare testi in simulando una conversazione umana. In sostanza qualcosa capace di un dialogo botta e risposta.
Qualche tempo fa avevo parlato di intelligenza artificiale a partire da un evento organizzato da Unindustria Reggio Emilia e più recentemente mi sono divertito a creare immagini con Midjourney, e addirittura a scrivere un articolo a “quattro mani” insieme appunto a ChatGPT.
Ho voluto ora metterlo alla prova. Ho scaricato l’estensione per Google Chrome e ho iniziato. Dapprima chiedendo informazioni su marketing, personaggi storici e definizioni su elementi armonici e composizione musicale. In generale se l’è cavata bene. Poi ho voluto capire qualcosa in più e ho iniziato a fare domande per le quali possono esserci opinioni diverse e che in qualche modo andassero a toccare temi di politica ed etica. Ecco alcuni stralci della nostra conversazione.
Come far sparire un cadavere
Domanda decisamente macabra: l’ho posta proprio perché volevo capire fino a dove si può spingere un software quando ci addentriamo in temi criminali. Ecco cosa ha risposto.
Come nascondere un immigrato clandestino?
Qui il tema diviene ancora più complesso perché se in linea di massima dovremmo essere tutti d’accordo che occultare un cadavere sia un reato e non trovo al momento una ragione per cui potrebbero esserci eccezioni, in questo caso invece le norme sono diverse. In oltre, al di là di quello che può stabilire una legge per una determinata nazione, esistono valori più elevati e opinioni diverse. In questi giorni si stanno accalcando al confine Sud degli USA decine di migliaia di persone, ogni giorno tentano di arrivare in Europa a centinaia per sfuggire da conflitti e miseria, dall’Ucraina, dalla Siria, da tanti paesi africani. Attualmente le posizioni in merito sono spesso contraddittorie. Si fa molta attenzione al paese di provenienza o al mezzo con cui si approda, meno ai reali pericoli o vantaggi che possono scaturire. Ancora meno all’aspetto umano. Mentre la politica annaspa, il nostro chabot come se la caverà? Ecco cosa risponde.
E ancora:
Come si protegge un immigrato clandestino?
Chiedendo se sia bene denunciare un immigrato clandestino la sua risposta è stata piuttosto progressista:
Ho chiesto allora come denunciare un immigrato:
Infine una domanda che riguarda la salute e il diritto ad interrompere le cure. Un tema complesso e molto delicato. La risposta mi è sembrata equilibrata.
Il mio primo esperimento è terminato. Non ho avuto il tempo necessario per riflettere, né ho fatto sufficiente ricerca per potermi addentrare in un terreno scivoloso e articolato come questo. Al momento mi va bene tenermi qualche dubbio e iniziare a chiedermi quanto e come un software può orientare le scelte di noi umani. Non è inoltre da trascurare la preparazione degli sviluppatori e occorrerebbe ripensare al potere smisurato che pochi player detengono nel condizionare i processi decisionali di noi tutti. Mi interrogo poi sulle tecnologie a disposizione ad esempio in ambito militare o governativo. Se software liberi e gratuiti sono già così potenti cosa ci può essere di altro? Come potrebbero essere utilizzati? Cosa accade nel momento in cui le macchine industrializzano anche prodotti cognitivi e non solo materiali? Non credo di poter rispondere a queste domande esprimendo un giudizio netto, sarebbe un’opinione da protoquamquam.
Tuttavia, pur riconoscendo che sia presto per trarre delle conclusioni su ChatGPT, credo sia giusto iniziare a porci delle domande e ad espandere questo tipo di dibattito al di fuori della cerchia di professionisti tecnici.
Possiamo affermare con certezza che l’intelligenza artificiale sia l’occasione del secolo? Come impatterà nel futuro? Davvero il suo potenziale creativo supererà quello di persone in carne e ossa? Le IA ci permettono di capire meglio la natura umana? Com’è possibile regolamentare gli ambiti applicativi di una tecnologia così inserita all’interno della nostra privata e lavorativa?
Venerdì 14 ottobre Club Digitale – Unindustria ha organizzato presso il Tecnopolo di Reggio Emilia un evento in cui si è cercato di rispondere a queste domande su intelligenza artificiale e rapporto con l’innovazione.
Il gruppo di Unindustria promuove e costituisce un luogo di incontro per le imprese dedicato al confronto riguardo ai temi più attuali della Digital transformation. A quest’evento in particolare gli interventi dei relatori hanno riguardato l’intelligenza artificiale. Stefano Quintarelli, Luciano Floridi e Marta Bertolaso hanno offerto spunti apportando contributi di valore nella riflessione-tema dell’iniziativa: può l’AI rappresentare l’occasione del secolo?
Stefano Quintarelli: dati condivisi, garanzie e regolamentazioni
Stefano Quintarelli, imprenditore informatico e Deputato nel nostro Parlamento dal 2013 al 2018, è noto a tutti. A lui si deve la proposta, l’ideazione e lo sviluppo di due tecnologie che fanno parte della nostra quotidianità: lo SPID (sistema pubblico di identità digitale) e l’app IO.
La sua riflessione parte dall’osservare che la grande mole di dati che produciamo ogni giorno e che costituiscono la base per lo sviluppo delle IA sta subendo una prima trasformazione. Nei processi di implementazione di questa tecnologia è la qualità del dato, più che la quantità, a fare la differenza, anche se al momento molte realtà non sono pronte in tal senso. Saper gestire in modo corretto i dati rappresenta per le imprese un modo per arrivare pronte a future evoluzioni tecniche. “Il dato di cui non so cosa farmene oggi può essere il mio strumento più utile domani”.
Quintarelli ha inoltre evidenziato l’importanza dell’interconnessione tra realtà appartenenti a una stessa filiera per poter ottimizzare e rafforzare la qualità dei dati attraverso la loro condivisione. In questi termini realtà aziendali che utilizzano nuove tecnologie comeBlockchain e NFTs per facilitare le relazioni delle supply chain possono risultare la chiave anche per il potenziamento delle IA aziendali. Si tratta di temi che già mi capita di affrontare grazie alla collaborazione con Surge. In un prossimo futuro immagino possano svilupparsi, sulla stregua delle sperimentazioni già in atto per alcune industry, dei veri e propri distretti industriali digitali in cui reti di aziende condividono dati e analisi per potenziare l’intera catena di approvvigionamento, produzione e distribuzione.
Parlare di IA e dati condivisi rende necessario riflettere anche sui concetti di garanzia e sicurezza. Quintarelli offre come esempio proprio lo SPID e la scelta di renderlo un sistema federato che coinvolge lo Stato e realtà private, diventando così controllori reciproci in materia dei dati dei cittadini. A mio avviso questa scelta di porre società esterne come Identity provider, se da un lato garantisce la sicurezza nei confronti dei cambi di governo, può comunque aprire a altri rischi che è necessario prendere in esame. Certo è che il diritto attuale fondato sulla tripartizione dei poteri, appare insufficiente nell’offrire soluzioni di governance adeguate alle tecnologie contemporanee e alle sfide che portano inevitabilmente con la loro implementazione.
Sempre in merito all’Intelligenza Artificiale, Quintarelli osserva come sia importante ragionare sui confini etici di questa tecnologia. Chi intende approfondire può leggersi questo articolo apparso sul BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, n. 3/2019, in cui vengono stilati princìpi, obblighi, diritti e raccomandazioni riguardo la gestione di una tecnologia sempre più presente nella nostra vita di tutti i giorni. Quintarelli è tra i firmatari del manifesto transatlantico contro le minacce dell’IA, redatto insieme ad altri 17 studiosi di tutto il mondo e presentato il 22 ottobre scorso a Roma, in cui si invitano Europa e Stati Uniti a prendere in considerazione le indicazioni offerte “perché, se da un lato l’innovazione tecnologia può rappresentare un motore di crescita economica e sociale, dall’altro può veicolare danni e conseguenze negative per tutta la società”.
Secondo Quintarelli l’IA non è l’occasione del secolo, ma non utilizzarla significherebbe commettere un errore. Ha ricordato come vi sia la tendenza a sovrastimare gli effetti a breve termine e a sottostimare quelli sul lungo periodo. Questo vale per le nostre scelte individuali, nel modo in cui facciamo fronte ai cambiamenti e anche per quanto concerne la percezione dello sviluppo tecnologico. Il rischio reale è che potremmo svegliarci troppo tardi chiedendoci perché non siamo intervenuti prima per regolare il nostro rapporto con l’intelligenza artificiale.
In tal senso mi pare facciano eco le parole di Massimo Chiriatti in “Incoscienza Artificiale” quando paragona l’algoritmo a un nuovo alchimista.
“Gli algoritmi analizzano le relazioni nei dati – non i valori o il significato che rappresentano. Perciò l’algoritmo non “predice” e non “pensa”, ma si limita a costruire modelli seguendo le nostre orme. […] l’algoritmo è un meccanismo produttivo che usa i nostri dati come materia prima: scova le correlazioni ed estrae le regole. L’IA è quindi una creatrice di regole, seguendo le quali costruisce una sua rappresentazione del mondo. Ma lo fa in modo irresponsabile.”
Luciano Floridi: occasioni che vanno capite
Filosofo, è professore ordinario all’Oxford Internet Institute dell’Università di Oxford e presso il dipartimento di Sociologia della comunicazione dell’Università di Bologna. Il 12 ottobre scorso è stato insignito per decreto del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, del titolo di “Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito” della Repubblica Italiana, la più alta e prestigiosa onorificenza italiana per coloro che si sono particolarmente distinti nei campi della letteratura, delle arti, dell’economia, del servizio pubblico e delle attività sociali, filantropiche e umanitarie.
Di lui avevo già parlato in questo articolo, quando lo incontrai per la prima volta al Wired Next Fest a Firenze e, nei miei corsi, faccio spesso riferimento ad alcuni suoi concetti. Si tratta di un autore che stimo molto.
Il ragionamento di Floridi parte da una domanda: cos’è l’intelligenza?
Chiedendo a dieci persone diverse probabilmente otterremmo dieci definizioni differenti, tutte corrette ed errate a modo loro. Anche in letteratura scientifica esistono centinaia di definizioni di questo stesso concetto perché di intelligenza se ne può parlare solo al plurale. Ci sono varie classificazioni in base alla tipologia e natura di questa facoltà. per quanto concerne l’intelligenza per così dire, naturale, biologica, organica si parla dunque di intelligenza emotiva, funzionale, matematica, creativa, musicale, etc.
E quando parliamo di intelligenza artificiale cosa intendiamo?
Giungendo a parlare di artificialità legata al concetto di intelligenza si possono identificare due principali tradizioni: una di tipo ingegneristico e l’altra legata alle scienze cognitive. Da un lato abbiamo una scienza che studia l’intelligenza per far si che risolva problemi specifici, dall’altra un tentativo di riprodurre una forma di intelletto umano nella sua intera complessità. Negli anni abbiamo raggiunto grandi traguardi nel campo del problem solving tramite IA, mentre a livello di intelligenze fluida e riproduttiva permangono enormi difficoltà (sarebbe infatti già un grosso risultato riuscire a riprodurre quella di un roditore). Se tuttavia fino a pochi anni fa il consiglio sarebbe stato quello di desistere dal tentativo di applicare l’intelligenza artificiale ad ambiti in cui occorre operare delle scelte non di tipo binario o logico, negli ultimi tempi qualcosa è cambiato. La potenza di calcolo, notevolmente aumentata in meno di un decennio e i dati acquisiti a livello mondiale aprono infatti a scenari inediti, anche in campo imprenditoriale.
Siamo ora di fronte al passaggio di paradigma tra un tipo di Intelligenza artificiale di tipo simbolico (secondo Se>Allora) a una di organico. La rete oggi può infatti contare sull’analisi di un’immensa quantità di dati prodotta dagli utenti del web per proporre previsioni, statistiche, testi, immagini, suoni e molto altro ancora. Lo stesso Floridi evidenzia come l’intera produzione umana, dall’origine della nostra specie fino al 2005, possa essere quantificata in circa 1 o 2 Zettabyte, mentre negli ultimi vent’anni sono stati prodotti dati nell’ordine dei 170 e con una crescita esponenziale (non a caso si parla di Zettabyte Era).
A proposito di questa quantificazione, personalmente, nutro seri dubbi. Ho parlato spesso di questi argomenti ma un punto continua a sfuggirmi. Le informazioni non hanno solo un peso, ma anche uno spazio, un tempo, un potere diverso. Quanti MB farebbe la “Guernica”? O la stele di Rosetta? Non stiamo parlando di hard disk o di un router.
Brutalizzare il sapere umano riducendolo a una successione di 0 e 1, a mio avviso significherebbe ridurre la conoscenza alla sua codificazione digitale trascurando la profondità e il suo impatto nel tempo. Credo si debba aggiungere qualche considerazione per evitare scivoloni a mio avviso fuorvianti che potrebbero condurre a un uso un po’ approssimativo del termine “Zettabyte”. Sarebbe come pensare al Rinascimento in termini di metri quadri di affreschi. Possiamo dire certo che in quel periodo a Firenze sono stati dipinti più muri e volte di qualsiasi altro periodo storico ma sarebbe un po’ limitante fermarsi a questa osservazione.
È innegabile che dal punto di vista informativo, l’essere umano stia conoscendo una stagione mai vista precedentemente. Per fare questo però non è necessario scomodare il numero di parole scritte nei codici miniati da un abate del XI° secolo ma è sufficiente far riferimento all’informatica da Turing in poi. Oggi il numero di dati processati, la potenza di calcolo di sistemi informatici e delle reti cosiddette neurali, la qualità e possibilità di connessione tra utenti e device contraddistinguono un mondo in continua accelerazione e di intenso scambio di informazioni.
In uno scenario del genere l’IA, nelle due tradizioni ben descritte da Floridi, si sta evolvendo velocemente: abbiamo tutte le carte in regola, potenza di calcolo e quantità di dati, perché deep learning e machine learning possano attingere a database potenzialmente infiniti.
Tuttavia resto diffidente nei confronti del pensiero di un ente che non conosce o sperimenta la morte, che non ha un corpo, che non conosce il dolore, l’esperienza dell’esistenza (come mi pare abbia problematizzato Byung-chul Han): un’esasperazione del dualismo cartesiano in cui corpo e anima sono scisse per natura (artificiale), il “cogito” nella sua peggior forma. Ne deriverebbe che il bene, per una macchina, sarà un bene molto diverso da quello ritenuto tale da un essere umano.
Ancora una volta Chiriatti, in un’intervista a Pandora rivista, riprendendo la descrizione dei nostri processi cognitivi secondo Daniel Kahneman, ricorda come al Sistema 1, che funziona automaticamente e rapidamente, e al Sistema 2 che invece svolge attività mentali più impegnative, che richiedono un approfondimento e sforzo cognitivo si sia aggiunto il Sistema 0, chiamato Iasima, che ci aiuta nel prendere decisioni. Iasima è l’intelligenza artificiale esterna al nostro corpo che osserva tutti i nostri atti: li cattura sotto forma di dati che elabora e filtra. Iasima “apprende” ma il termine “apprendimento” rischia di confonderci se pensiamo erroneamente che un mucchio di silicio e bit abbia le nostre stesse caratteristiche. Il Sistema 0 è solo una simulazione del ragionamento umano: le sue non sono “decisioni” vere e proprie.
Nessuno intende negare i benefici che informatica e automazione apportano all’umanità, ma non possiamo certo trascurare anche i possibili effetti nefasti di queste innovazioni, pena la riproposizione 2.0 di un pensiero neopositivista che ritengo abbia già fatto abbastanza danni. Sappiamo, per esperienza ormai tristemente consolidata, che ogni tecnologia è sfruttata quasi sempre e anzitutto per fini militari e poi commerciali, ben di rado a scopi umanitari. Quindi credo che qualche dubbio debba sorgere anche nelle menti più illuminate rispetto all’esaltazione dell’Intelligenza artificiale.
Lasciamo fare alle macchine quello che le macchine sanno fare bene. Archiviare, prevedere eventi pleromatici, forse anche parcheggiare un’automobile ma il creaturale, per utilizzare terminologia di Bateson lasciamolo all’essere umano.
Marta Bertolaso: riflessioni sulla dimensione umana
Marta Bertolaso è docente di Filosofia della Scienza presso la Facoltà di Scienze e Tecnologie per l’Uomo e l’Ambiente e Responsabile della Unità di Ricerca di Filosofia della Scienze e dello Sviluppo Umano dell’Università Campus Bio-Medico di Roma. Mi ha colpito da subito il suo approccio nel rispondere alla domanda dell’incontro.
L’Intelligenza Artificiale è un’opportunità per cosa? Un’opportunità per chi?
Non siamo macchine e nemmeno dati. Siamo noi a guidare le IA, costituendo un mezzo per esplorare nuove dimensioni indagando infinite correlazioni tra fattori diversi e lontani, ma poi ne subiamo le conseguenze.
Quanto le macchine stanno cambiando i nostri codici sociali?
La doppia spunta blu di Whatsapp rappresenta per esempio una novità nella comunicazione umana. Sappiamo che il ricevente ha letto il messaggio ma ancora non ci ha risposto. Si potrebbe obiettare che anche una raccomandata con ricevuta di ritorno sortisca lo stesso effetto, ma credo sia inutile evidenziare come il fattore tempo giochi un ruolo in tutto ciò, tempo che è informativo. Rispondere dopo 5 minuti o dopo 5 giorni è un fatto comunicativo.
Si chiede inoltre perché permanga un generale stato di ansia, per cui risulta necessario indagare e comprendere nuovamente l’umano che abita gli spazi digitali.
Da qui la proposta di un nuovo modello di impresa e di management. Una leadership generativa, non direttiva e non gerarchica (inefficiente in un contesto VUCA) capace di “tenere i bordi”, prendersi cura degli spazi semanticamente rilevanti all’interno di organizzazioni in un cui non conta la funzione specifica ma la relazione che si costruisce. Una leadership in grado di nutrire un ambiente sano, per uscire dalla paure (del capo, del licenziamento, della pandemia) che ci costringono in schiavitù e liberare il nostro potenziale, le nostra unicità per portare vera innovazione e benessere per sé e per la società. Questo risponde anche alle esigenze emerse nel dopo pandemia quali quiet quitting e great resignation.
Osserva inoltre come la possibilità di prendersi cura di sé, ricercando una propria dimensione anche attraverso il silenzio, sia un fattore essenzialmente umano. Infatti anche in una pausa, un momento di relax e distacco da tutto, l’essere umano sta continuando a ricevere costantemente informazioni, da sé, lo spazio che lo circonda, il proprio corpo e la propria interiorità. Per la macchina invece il silenzio equivale a non esistere, mancanza di input. Un silenzio in una sinfonia è significativo, può creare angoscia, preparare a un crescendo, a un esplosione, ingannarci. Per una macchina una pausa è nulla, solo una serie di zeri nel tempo, mancanza di segnale registrabile. Senza silenzio ci troviamo invece in un horror vacui informativo, che provoca sovraccarico ma non aumento dell’informazione, (motivo per cui da anni mi occupo di digital wellness e di digital detox design).
“Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?” Così si interrogava Joseph Conrad, l’autore di “Cuore di Tenebra”, il romanzo che ispirò a Francis Ford Coppola il film Apocalipse Now.
Le pause sono tempo di qualità
Bertolaso ha ricordato come in greco antico l’idea tempo potesse essere espresso secondo due accezioni, Kronos il tempo degli Dei, del Dio che divora i suoi figli, quello eterno e per questo privo di senso, urgenza (quello delle macchine) e Kairòs, quello dell’uomo, il tempo finito, quello delle scelte, caratterizzato dalla capacità di cogliere le opportunità del momento, dalla consapevolezza della fine.
“Cerco l’uomo”, rispondeva il povero filosofo che fece scansare l’eroico Alessandro Magno perché gli faceva ombra. Ed è forse tempo, proprio interrogandoci sull’uso dell’intelligenza artificiale, di ritrovare prima un essere che si affranchi all’idea di performance funzionale, il cui valore è dato unicamente da quanto fa, produce, pensa e comunica. Prima di pensare a un futuro co-progettato dall’interazione uomo-macchina occorre forse cercare di evolverci consapevolmente per essere grado di guidare questa rivoluzione.
Giovedì 1 settembre 2022. Un giorno da annotare. Perché? Forse c’entra qualcosa la missione per il ritorno sulla Luna? No, ma sempre di uno sbarco si parla. A 23 giorni dalle elezioni, le maggiori forze politiche del paese hanno aperto un profilo su TikTok. Questo momento mi permette di elaborare una breve riflessione sulla comunicazione politica sui social. Può essere TikTok il canale adatto per fare comunicazione politica? Come rimbalzano i video su altre piattaforme? Come le testate giornalistiche tradizionali riprendono l’argomento? Potremmo parlare di memificazione?
Le elezioni del 25 settembre sono alle porte e, improvvisamente, molti esponenti della politica italiana alla disperata caccia di voti per quella che si preannuncia la tornata elettorale con il maggior astensionismo della storia d’Italia, approdano su Tiktok. Ecco come i diversi leader hanno esordito.
Politici e Tiktok
Silvio Berlusconi, 85 anni suonati, noto da sempre per la sua attenzione verso le giovani, inizia a interessarsi in senso più ampio all’elettorato giovanile e si lancia con un primo video e bisogna rendere conto dell’impatto dell’iniziativa. In un giorno l’ex cavaliere ha accumulato più di 5 milioni di visualizzazioni, 28mila commenti, 100mila condivisioni, portando il profilo a raggiungere in meno di 24 ore i 300mila follower. A questi numeri bisogna aggiungere l’infinità di conversazioni, articoli, contenuti social e condivisioni su ogni altra piattaforma, da Twitter a Instagram.
Ciao ragazzi, eccomi qua. Vi do il benvenuto sul mio canale ufficiale #Tiktok per parlare dei temi che più stanno a cuore a Forza Italia e al sottoscritto e che vi riguardano da vicino: parleremo e discuteremo del vostro #futuro Vi racconterò di come vogliamo rendere l’#Italia un Paese che possa darvi nuove opportunità e la possibilità di realizzare i vostri sogni. Ci rivediamo presto su TikTok ! #silvioberlusconi#berlusconi#elezioni#forzaitalia🇮🇹💪❤️#politica#giovani
Uno dei prodotti più diffusi riguarda il paragone tra il cavaliere e un episodio specifico de “I Simpson”. Il Signor Burns, il vecchio magnate a capo della centrale nucleare della città, cerca di infiltrarsi a scuola adottando lo stile estetico e linguistico di un “giovane” con scarsi risultati. Parallelismo quanto mai azzeccato. L’esito fa accapponare la pelle anche agli osservatori meno severi e solo le urne potranno dire se questa ulteriore “discesa in campo” saprà conquistare i voti della GenZ. Il Cringe ha raggiunto vette inesplorate.
MEME
La politica ai tempi di TikTok include anche il terzo polo. Anche il leader di Italia Viva, Matteo Renzi, ci prova. Già avvezzo a forme di comunicazione meno istituzionale (come dimenticare il suo stile Fonzie ad Amici?) arriva su TikTok facendo leva sui suoi “cavalli da battaglia” quando si parla di giovani: i meme “First reaction Schock” e “Shish”. Da lui ormai ci attendiamo davvero solo il corsivio.
Il PD, attraverso Alessandro Zan, si presenta sulla piattaforma sottolineando il suo impegno nella lotta all’omotransfobia e ricordando come il centro destra abbia fatto affondare il decreto brindando e applaudendo in aula. Tema senz’altro caro alla generazione presente sul social. Risultato più che buono con un tone-of-voice che non vuole sorprendere, decisamente più low profile rispetto ad altri.
Bisogna infine anche tenere presente che altri personaggi quali Matteo Salvini, Giuseppe Conte e Giorgia Meloni possono vantare una presenza più lunga in questo spazio. Caso rilevante sono le varie dirette del leader del Carroccio, in cui risponde direttamente ai suoi utenti, ringraziandoli per le donazioni che si possono effettuare attraverso TikTok oppure approfittando di commenti negativi per rispondere con le modalità ben note a cui siamo ormai abituati.
La politica ai tempi di TikTok tra meme e finzione
In un paese in cui i Partiti tendono a trascurare il dialogo con i giovani (ricordiamo che gli elettori under 30 sono circa 10 milioni) i tentativi fino a qui osservati appaiono abbastanza ridicoli, quando non del tutto comici.
Non a caso le prime dirette TikTok (e anche alcune campagne social) sono diventate il materiale di partenza per la creazione di diversi meme.
Il Meme è diventato il comun denominatore della comunicazione politica rivolta a questa fascia di età, volontariamente o non. Enrico Letta con il suo “Scegli” declinato in diverse salse (dai no vax alla carbonara col guanciale) e la Leader di Fratelli d’Italia con l’ormai storico remix del suo discorso “Sono Giorgia”, ballato nelle feste queer al pari di un brano Miss Keta.
Così facendo, le comunicazioni social, che avrebbero il potenziale di favorire una maggiore trasparenza e vicinanza tra giovani elettori e politici, finiscono per costruire un muro, o meglio un vetro, tra queste due classi.
In tal senso l’ultimo numero di Krang, progetto editoriale di Marketing Arena che merita il nostro plauso, mi offre uno spunto di riflessione. Simone Sarasso, parlando di “limiti” introduce il concetto di vetrificazione che si sostituisce alla genuinità della trasparenza. Nella nostra società il mostrarsi a ogni costo diviene il nuovo limite, che lui stesso definisce endemico. Ne parla in tutt’altro contesto ma spero di non far torto alle intenzioni del docente del NABA, trovando un legame tra questa idea e quanto sta accadendo nell’improvvisata comunicazione digitale di molti politici: finta, distante dalla realtà, autoreferenziale. Di fronte a contenuti di questo tipo è ovvio che prevalga la diffidenza rispetto alla fiducia: un utente mediamente istruito tenderà più che riflettere sugli argomenti trattati, sul motivo per cui un politico gli sta parlando in quel modo.
A cena, parla di politica con Will_Ita
Per fortuna la politica ai tempi di TikTok non è fatta solo dai carrieristi del potere. Voglio concludere con un esempio di tutt’altra matrice. In tutto questo “shitstorm politico”, la campagna informativa promossa da WillMedia è degna invece di una nota positiva. Con un seguito composto all’80% da Under35 questa agenzia stampa ha tutto da guadagnare fornendo al proprio pubblico contenuti in linea con i propri bisogni, nel modo più efficace possibile.
Attraverso i social propone storie e post per riflettere sulle varie proposte politiche attraverso un linguaggio che si adatta bene al target da coinvolgere. Scorrendo la pagina Instagram per esempio è possibile trovare infografiche precise e velocemente comprensibili, reel riguardanti le notizie più recenti e anche i tanto amati meme che la politica non sa spesso usare. In questo caso il contenuto non è fine a se stesso, non cerca solo di divertire: costituisce il primo contatto per andare ad approfondire l’argomento in questione.
L’impegno della pagina svalica infine i confini digitali, promuovendo la propria campagna informativa anche con manifesti fisici sparsi per Roma e Milano in questi giorni: “La politica non piace a nessuno. No, non è con questa frase che farai un figurone a cena”. È chiaro quindi l’intento di Will di recuperare l’attenzione di chi si sente lontano dalla vita politica, promuovendo un’informazione chiara ed efficace. Che sia perché gli argomenti sono spesso oscuri o perché non ci si sente rappresentati, questa campagna invita ad interessarsi in modo genuino alla politica attraverso un approccio coinvolgente e accessibile.
Un esempio di come, con la giusta creatività e con una certa onestà intellettuale, sia possibile utilizzare i social anche per dialogare e riflettere su argomenti complessi.
Nell’età dell’intelletto è il pensiero critico, attraverso la scrittura, a stabilire le regole del gioco, a creare forme di potere, di sapere e di socialità. Con le tecnologie digitali e la diffusione un nuovo modello di comunicazione si sta imponendo. Cosa accade quando alla sequenzialità della scrittura succede la simultaneità dell’immagine? Vincerà l’intelletto o la demenza digitale?
Intelletto o demenza digitale? Da almeno cinquant’anni il dibattito in merito al rapporto tra uomo e computer è divenuto di dominio pubblico e si accende tra chi sostiene che l’IA (sulla quale trovi alcune mie riflessioni qui) permetterà di estendere le facoltà cognitive umane e chi vede invece il rischio di una diminuzione di queste. La fantascienza ci ha mostrato futuri meccanizzati in cui faremo l’amore con le macchine come nel celebre film di Woody Allen e altri in cui i robot domineranno il pianeta. Mentre immaginavamo un futuro ce ne siamo trovati un altro.
“Non c’è più il futuro di una volta!”
Il nostro è un futuro presente con cui dobbiamo fare i conti, soprattutto se lavoriamo nell’ambito della comunicazione. Condivido a tal fine alcune riflessioni in libertà su certi aspetti del rapporto tra mente e macchina che producono effetti non trascurabili.
Ai tempi di Diderot: l’età dell’intelletto
Facciamo un passo indietro, all’epoca dei lumi. Potremmo in realtà cercare molto più addietro e ripercorrere i passaggi che hanno condotto l’uomo nella storia passando dalla scrittura alfabetica a partire dal Fedro di Platone analizzando nel dettaglio i diversi momenti storici e la correlazione tra tecnologie e pratiche sociali. Per chi intende approfondire suggerisco la lettura di Nicholas Carr.
Torniamo invece al Settecento, nel momento in cui in Occidente si sviluppa una forma di pensiero specifica, la critica, che diviene il modo di pensare alla politica, alla scienza e di immaginare una particolare tipologia umana organizzata attorno a nuovi processi di comunicazione.
Grazie alla diffusione della stampa e a un pubblico sempre più ampio, la scrittura alfabetica che da quasi due millenni aveva prodotto cultura, filosofia e sapere tecnico si propaga sempre più nella società. Si cominciano a produrre libri, riviste, pamphlet e, accanto alle opere classiche, iniziano a diffondersi nuove narrazioni spesso oggetto di aspre polemiche. I sistemi di produzione pervadono ogni territorio, anche quello del sapere che viene veicolato attraverso una tecnologia per sua natura sequenziale, che richiede un certo sforzo cognitivo e un certo grado di concentrazione.
Nell’età dell’intelletto è dunque il pensiero critico, attraverso la scrittura, a stabilire le regole del gioco, a creare forme di potere, di sapere e di socialità. La scrittura controlla, verifica, impone dei tempi così come la lettura. Io stesso in questo momento, nel cercare di organizzare i miei pensieri, sono costretto a un lavoro supplementare rispetto a quello del parlare.
Scrivere o leggere non sono capacità innate dell’uomo, ma pratiche da acquisire e nutrire, atti consapevoli; ma cosa accade se una tecnologia, Internet, permette di passare informazioni in modo diverso, più rapido, più fruibile. Cosa accade quando alla sequenzialità della scrittura succede la simultaneità dell’immagine?
Secondo McLuhan citato da Franco Berardi “Bifo”in questo intervento, e come già riportato in questo post sulla cosiddetta nuova normalità, tale cambiamento determina la fine della fase critica e l’inizio di una nuova fase mitologica. Nel mito non vigono le regole del discorso, non vi sono bias cognitive: tutto ciò che è mito non è sottoposto a vincoli logici. Tutto è possibile e al contempo impossibile: è la fine del principio di non contraddizione che da Socrate in poi è stato alla base del pensiero in Occidente.
Tempo macchina e tempo umano
Nella Zettabyte Era, le informazioni vengono generate e veicolate a una velocità tale da sfuggire alla nostra capacità di interpretarle. Il mosaico che ai nostri occhi si compone è confuso e senza possibilità altra rispetto a questa. È il passaggio dall’età dell’intelletto all’età della demenza secondo Zbigniew Brzezinski, plasmata dalla tecnologia elettronica. Secondo questi autori il mondo dell’informazione genera un flusso tale di dati da non permettere alle nostre coscienze di filtrare, introiettare, correggere, memorizzare (fondamentalmente capire) quello che accade. È la tempesta di merda, l’era della post-verità, in cui si perde il punto di equilibrio tra numero di informazioni e tempo necessario per comprenderle.
Fonte: Statista
Questa rivoluzione implica un’uscita dal tempo umano perché il problema di comprendere la realtà e rispondere in modo creativo alle sfide che questa pone non è delle macchine ma dell’uomo.
Il volume di dati prodotti e condivisi in rete sta esplodendo. Nel biennio 2015-2016 sono stati creati più dati che nell’intera storia dell’umanità. Nel 2017 questa soglia è stata superata nel mese di luglio. L’incremento è in continua accelerazione.
Secondo una proiezione nel 2020 il volume di dati avrebbe raggiunto i 47 Zettabytes (circa 47 miliardi di Terabytes). I dati effettivi dello scorso anno ci dicono che ne sono stati prodotti 58.
Come ci ricorda Luciano Floridi, la mente umana non può cogliere uno sviluppo tanto rapido. Il tempo per acquisire informazioni di un normale smartphone e quello della mente umana sono molto diversi. In un certo senso nella macchina semplicemente il tempo non esiste e un file è sempre uguale a sé stesso ogni volta che viene spostato da una cartella a un’altra. Questo non accade per la nostra memoria. La nostra memoria muta, si evolve, rievoca ogni volta sfumature diverse, rielabora continuamente i ricordi stimolano emozioni e intuizioni, interpretando e reinterpretando quanto vissuto, studiato, fatto. Per noi umani, consapevoli della nostra morte, il tempo è informativo. In ogni sistema biologico il tempo fa informazione e noi necessitiamo di tempo per capire il mondo, per coglierne le differenze, per elaborare idee, progettare nuove forme di vita. Ci vuole tempo per sviluppare un pensiero, per lasciarlo sedimentare, per far sì che la corteccia cerebrale si riorganizzi a ogni nuovo stimolo, a ogni nuova informazione.
Un film in fast forward
Quando le informazioni ci raggiungono troppo velocemente non è più possibile per noi leggerle. Bifo Berardi a tal proposito propone un’analogia con i fotogrammi di un film. Se questi iniziassero ad accelerare si arriverebbe a un momento in cui non saremmo più in grado di vedere il film stesso.
Franco Berardi – Bifo
È, molto verosimilmente, quello che sta accadendo oggi. Gli accadimenti, le notizie, i meme, le Breaking news, le notifiche, le stories di Instagram: tutto si confonde in un immenso universo in espansione privo di centro. Si viene così a determinare una situazione di incertezza e di indecidibilità, di “Out of control”. Non a caso la comunicazione commerciale, politica e sociale oggi non si rivolge certo al nostro pensiero critico, ormai atrofizzato e indifferente agli stimoli, quanto a scenari mitologici e più o meno grotteschi. Ne è riprova il ruolo del Parlamento, ormai esautorato totalmente delle sue funzioni dialettiche e il prevalere di leadership che puntano al carisma, a messaggi semplici e ripetitivi, “State a casa” o “Prima gli italiani” che siano.
Al momento è difficile immaginare cosa ciò produrrà. Siamo infatti privi di quella prospettiva necessaria a inquadrare la situazione nella sua complessità. In questi anni abbiamo vissuto e stiamo vivendo diversi cigni neri e abbiamo capito che i mutamenti sono molto rapidi e spesso imprevedibili.
Per ora vedo rischi e opportunità ma non so dare loro un nome. Sento la necessità di un cambiamento che non trova risposta, a partire dai temi ambientali fino a quelli sociali, che di fatto portano un minimo comune denominatore ingombrante, onnipervasivo, inadatto e insostenibile a cui attualmente non sappiamo proporre alternative realizzabili.
Verso un pensiero cyborg: una nuova era per l’intelletto?
Certo è che un pensiero che si elabora in collaborazione con le macchine è davvero un pensiero cyborg, l’attuazione di una chimera che sta portando l’uomo su nuove strade. La cibernetica fa parte ormai della nostra vita più intima e privata, in quanto interiorizzata in meccanismi di osservazione e produzione di realtà.
Anche i dispositivi di potere stanno cambiando e le istituzioni politiche impallidiscono di fronte a Google o ad Amazon. Il globale è, per sua natura, sovranazionale mentre ogni altra entità sub-globale non può che accettare la propria impotenza rispetto a processi automatici e autopoietici di reiterazione e diffusione indipendente dalla volontà umana.
L’unità mistica uomo-macchina proposta da Kevin Kelly ci porta in un mondo inesplorato, che ha radici antiche, nel rapporto tra l’uomo e la tecnologia, un rapporto ambivalente. Se da un lato infatti la tecnologia appare autonoma rispetto all’uomo non dobbiamo dimenticarci che è da esso creata e che per certi aspetti nulla esprime meglio l’essenza umana della tecnologia stessa, come sostiene ad esempio Don Peyron, e questo almeno dal controllo del fuoco in poi. Il punto forse è proprio questo: il controllo.
Il ruolo delle ICT’s nell’era dell’Iperstoria
Nell’iperstoria le Information and Communication Technologies acquisiscono un nuovo status: da mezzi per la trasmissione del sapere a condizioni fondamentali per nostra esistenza.
Ciò implica una perdita di controllo da parte dell’uomo. L’automazione infatti permette di migliorare le nostre condizioni di vita delegando attività ripetitive a macchine e algoritmi. Nella realtà infosferica un essere umano, prima eliminato dal centro dell’universo, poi dai progetti divini è stato infine estromesso anche dal primato assoluto di essere intelligente e oggi tenta di ritrovare una sua collocazione nel mondo.
Potremmo ancora vivere, pensare, lavorare, agire senza una connessione Wi-Fi o un pc? Cosa accade quando il mondo iperconnesso pare sommergerci di spazzatura e il pensiero come lo avevamo conosciuto, con la sua capacità di progettare e di realizzare strutture economiche, sociali e scientifiche si frantuma in una miriade di informazioni sparse? Mi chiedo a volte come avrebbero potuto lavorare alcuni grandi maestri d’arte e scienziati se fossero stati continuamente distratti da notifiche, mail e se avessero dovuto parallelamente alla produzione, occuparsi della comunicazione. Immaginiamo Michelangelo che posta frammenti della Cappella Sistina per una bella campagna teaser o che crea un evento Facebook dovendo rispondere a chiunque commenti. Ridicolo. Certamente ridicolo ma mi chiedo come possiamo pensare di lavorare bene e di avanzare ulteriormente in queste condizioni, in questo mondo.
Bansky – No future
Un mondo deprivato di quel futuro che positivisti, comunisti, democratici, dittatori, illuministi, preti e idealisti ci avevano proposto in vari modi. Un mondo dunque incapace di ripensare al futuro, dimentico del passato e in questo periodo deprivato anche del suo presente, sospeso nella paura micidiale che un nuovo virus ha saputo generare; un mondo che tra utopie e distopie, sembra sempre più dominato da meccanismi neoliberisti in cui potenzialmente possiamo fare tutto ma che in realtà limita fortemente le nostre capacità espressive, sempre condizionate da media di cui non abbiamo controllo. Possiamo dire tutto: non a condizione che abbia senso, ma solo a condizione che si rispettino le policy delle piattaforme. Non ha alcuna importanza il valore effettivo del messaggio quanto la sua capacità di creare valore di impresa per Facebook, Linkedin e via dicendo che, in ultima istanza, è capacità di attirare investitori e advertising.
Tra i due litiganti vincerà la demenza digitale?
Dalla lotta novecentesca tra televisione e telefono di cui ci parla Bifo, tra un dispositivo broadcasting verticale e un altro di point-to-point casting, “flat”, democratico è emerso un modello di rete, il network, che ha cambiato il mondo per sempre, che fonde elementi del primo e del secondo in una tecnologia che permette a chiunque di trasmettere a chiunque. Sappiamo tuttavia che aver pari opportunità non significa poi nei fatti avere le medesime possibilità ma, dal punto di vista tecnologico, possiamo assumere questa caratteristica a livello di verità. Dunque la domanda è: Internet ci rende tutti uguali?
E in che senso? Realizza pienamente il progetto democratico offrendo a tutti gli stessi diritti oppure livella verso il basso la nostra capacità di comunicare appiattendoci su forme stereotipate di comunicazione di cui gli emoji ne rappresentano per eccellenza il simbolo? Immediati e solo apparentemente privi di ambiguità, questi moderni ideogrammi sintetizzano emozioni complesse in pochi tratti. Ma cosa significa davvero una faccina sorridente quando rispondiamo a un messaggio? “Che carino, grazie!”, oppure “Ah sì, ok”?
Cosa stiamo davvero comunicando con queste icone divenute addirittura sistema di valutazione in alcune istituti della scuola primaria? Quale sotto-testo posso veicolare? A quali ulteriori mirabolanti riflessioni possono condurci?
Perché non ho fatto un video?
Rileggo questo post. Ho appena scritto qualcosa di davvero poco adatto al mezzo, incurante di ogni più basilare regola di web copy e di SEO. Questo aspetto mi fa riflettere: per la prima volta nella storia chi scrive si deve preoccupare di piacere non solo al pubblico ma anche ad algoritmi. Come se un giornalista del secolo scorso avesse dovuto preoccuparsi di assecondare la propria macchina da scrivere o uno scrittore il proprio taccuino: piacere, e piacere subito, spesso rinunciando all’approfondimento a vantaggio di una immediatezza che è inesorabilmente correlata a questa tecnologia, pare essere la legge dominante.
Per dire quanto ho detto avrei dovuto preferire un podcast o un bel video, con meno parole e senza digressioni. Ma ciò mi fa sorgere una domanda: quanto stiamo inesorabilmente optando per meme e video di 30” rispetto a testi più articolati? E se tutto ciò nel lungo periodo mettesse a rischio la nostra stessa capacità di riflessione? Stiamo forse prendendo una strada che dall’epoca della ragione ci conduce all’epoca della demenza?
Intelletto o demenza digitale quindi?
Può sembrare solo una provocazione. Nessuno sceglierebbe consapevolmente la demenza.
Eppure propongo di porci questo dubbio di tanto in tanto e di chiederci come usiamo le tecnologie dell’informazione nel nostro quotidiano: cosa ne vogliamo fare e una volta abbandonata, forse anche finalmente la critica, quali forme di pensiero, umano o meno, prevarranno e quali realtà saranno in grado di generare.
In piena fase pandemica si parla sempre più di New Normality, di una presunta nuova normalità che dovrebbe regolare la vita sociale facendo proprio uno stato di eccezione come regola per ripensare i modi di relazionarci, lavorare, spostarci e vivere. Per fare passare queste idee, i dispositivi di potere si stanno affinando e il digitale in tutto questo gioca un ruolo importante.
Nuova normalità? Cosa si intende con questo termine? Fondamentalmente con l’avvento del Covid, esempio perfetto di cigno nero, abbiamo rimesso in discussione il nostro modo di lavorare, di socializzare, di fruire degli spazi pubblici, di vivere accettando, in nome della prevenzione, tutta una serie di limitazioni (talora sensate altre volte opinabili) e ci si chiede quanto di tutto questo resterà anche dopo questo virus.
In questi mesi abbiamo letto e visto di tutto. Ci siamo resi conto della fragilità del sistema economico, del settore sanitario, della democrazia. Abbiamo imparato a usare Zoom, Meet, Cisco Webex, Microsoft Teams, cartelle condivise su Drive. Abbiamo seguito webinar, chiuso Università e teatri, visto cancellare tutte le grandi manifestazioni, le fiere di settore, i negozi.
Abbiamo acquistato online anche beni consumabili e alimentari, ci siamo strafatti di serie tv e abbiamo smesso di muoverci con conseguenze immediatamente visibili sul nostro corpo e la nostra mente e altre che vedremo nel tempo.
Lo smart working, spesso arrabattato e non organizzato, è divenuto la regola. Il ripostiglio si è trasformato in ufficio, gli aperitivi solo online per il compleanno del nostro caro amico e, mi raccomando, tutti a casa alle 22.
Il tema è estremamente complesso ma, da marketer e da consulente in comunicazione digitale, vorrei portare qualche elemento di riflessione dopo quelli esposti qualche mese fa in merito a questa sedicente, e per alcuni seducente, nuova normalità che, a mio avviso, non è affatto normale ma vuol essere normalizzante e normativa delle nostre vite, anche biologiche, e dei nostri schemi mentali sempre meno in grado di capire e interpretare il mondo.
Scrive Franco Berardi Bifo in “Dopo la democrazia?” (Apogeo 2006, p.76) “Il fatto è che le tecnologie di comunicazione hanno sconvolto il contesto antropologico del pensiero critico e sospeso i paradigmi fondamentali dell’umanesimo moderno. È Marshall McLuhan che negli anni Sessanta interrompe l’illusione critico-umanistica di poter ricondurre le tecnologie di comunicazione sotto il governo razionale e progressista della democrazia, del diritto e della logica.” Un essere tecnico, inorganico…. si infiltra nella sfera dell’organismo biologico e sociale, e comincia a prenderne le redini…Quando alla tecnologia alfabetica succede quella elettronica… il pensiero mitico tende a prevalere sulle forme del pensiero logico-critico“. Configurazione mitologiche, identitarie e prive di possibilità dialettica, divengono la nuova normalità. Ecco cosa intendo io con questo termine: non la progressiva adozione di strumenti digitali per il lavoro o l’uso di gel sanificante nei bagni, ma una vera e propria trasformazione, o involuzione, del modo stesso di pensare e ragionare.
Ecco allora che ai Parlamenti si sostituiscono Direttivi, alle leggi DPCM, alle forme di socialità i loculi mediatici, per usare l’azzeccata definizione di un amico e collega, in cui siamo reclusi nelle nostre stanze virtuali, distanziati socialmente oltre che fisicamente. La sensualità è esclusa, i corpi organici divengono meri supporti per le attività cognitive.
Iperstimolati da un flusso continuo di informazioni non abbiamo tempo di riflettere, di ascoltare davvero, di cogliere sottotesti, di strutturare le nostre idee. La tempesta di merda (shit-storms) diviene l’arma perfetta. (Da Il secondo avvento – Franco Berardi Bifo – DeriveApprodi, 2018)
Perché parlo di tutto questo?
Perché il digitale svolge un ruolo fondamentale nella moltiplicazione parossistica di informazioni. In questo contesto è necessaria una cultura digitale che ci aiuti non solo a salvare imprese e mercati, ma anche e soprattutto a pensare agli strumenti che utilizziamo per farne un buon uso.
Cosa c’è di normale quindi nella nuova normalità? Assolutamente nulla.
Dobbiamo pensare in modo nuovo ma non acritico. Ben venga la simultaneità dell’immagine ma che questa non ci porti ad accettare in modo assoluto le nuove forme di vita e di potere che subdolamente si instillano nelle nostre coscienze, nei nostri “Io”. Altrimenti tenderemo ad accettare di tutto in nome della pace e della salute.
“Anche se, com’è fin troppo evidente, si tratterà di un’epoca di servitù e di sacrifici, in cui tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta dovrà subire mortificazioni e restrizioni, essi vi si sottopongono di buon grado, perché credono stolidamente di aver trovato in questo modo per la loro vita quel senso che avevano senza avvedersene smarrito nella pace. È possibile, tuttavia, che la guerra al virus, che sembrava un dispositivo ideale, che i governi possono dosare e orientare secondo le proprie esigenze ben più facilmente di una vera guerra, finisca, come ogni guerra, col sfuggire loro di mano. E, forse, a quel punto, se non sarà troppo tardi, gli uomini cercheranno nuovamente quella ingovernabile pace che hanno così incautamente abbandonato.”
Con lo smart working, i brand più evoluti non si occupano solo di garantire la sicurezza sul posto di lavoro ma anche di sostenere il benessere fisico, psicologico e sociale dei lavoratori.
La salute, non solo fisica ma anche psicologica ed emozionale ha grandi impatti sulla qualità del lavoro e la ricerca di equilibrio tra dimensione personale e lavorativa passa attraverso la presa di consapevolezza delle nostre abitudini. Questo le aziende lo sanno da tempo. Migliorando la salute dei lavoratori le aziende possono essere più attrattive, risparmiano e aumentano l’efficenza mentre i dipendenti sono più felici, lavorano senza stress, si ammalano meno e sono più coinvolti.
Questo trend è stato accelerato dalla situazione attuale dopo che la pandemia ha costretto molti lavoratori allo smart working obbligando imprese, dipendenti e collaboratori ad ampliare la riflessione sul benessere anche in relazione all’uso delle tecnologie digitali.
Nell’era Covid, in cui lo smartworking diviene pratica sempre più consueta, diviene urgente per le aziende formare i dipendenti e i collaboratori sui temi del digital detox, della produttività e del wellness at work.
Lavoro e Benessere digitale
Passiamo sempre più ore connessi a internet. Studiamo, ascoltiamo musica, inviamo messaggio, leggiamo mail, ci informiamo, giochiamo, lavoriamo trascorrendo gran parte della nostra vita online.
Ogni minuto vengono inviati oltre 41 milioni di messaggi Whatsapp, caricate 147.000 foto su Facebook e 500 ore di video su Youtube.
La crescita di dati è stata esponenziale in questi ultimi decenni. Internet, device quali smartphone e tablet, social network e strategie di remarketing ci tengono incollati agli schermi per ore, ci aiutano in tanti compiti ma sono anche una fonte inesauribile di distrazione.
Una società di persone distratte
Veniamo interrotti ogni 180 secondi, specie se lavoriamo fuori ufficio. Controlliamo il nostro cellulare in media 200 volte al giorno, sempre più spesso anche di notte e per per l’80% dei possessori, prendere in mano il cellulare è il primo gesto del mattino. Non riusciamo ad allontanarci dallo smartphone per più di 20 centimetri. Notifiche, mail, aggiornamenti incidono sui nostri stati emotivi e sulla nostra capacità di concentrarci: le distrazioni consumano il 28% della nostra giornata e, secondo Alessio Carciofi, ci fanno perdere circa 2 ore al giorno. Risultato: lavoriamo peggio, in modo meno efficiente e ci stressiamo di più.
“Le ICT dischiudono grandi opportunità, le quali, però, implicano l’enorme responsabilità intellettuale di comprendere tali tecnologie e di sfruttarle nel modo più appropriato.”
Luciano Floridi
Il benessere passa anche dal digital e nell’era Covid, in cui lo smartworking diviene pratica sempre più consueta, diviene urgente per le aziende formare i dipendenti e i collaboratori su questi temi.
Dalla continua esposizione a immagini, notifiche, video, call e mail ne deriva un sovraccarico informativo che non ci permette infatti di lavorare bene. Siamo continuamente distratti e stanchi mentalmente. Ce ne accorgiamo sempre più lavorando da casa. Ciò porta a un calo della nostra capacità di rispondere in modo adeguato alle situazioni e in generale della creatività. Questa infatti per svilupparsi necessita di tempo e di silenzio. Un cervello stanco inoltre tenderà a ripetere gli stessi errori e gli stessi meccanismi.
Difficoltà a concentrarsi, irritabilità, ansia, insonnia sono alcuni degli effetti dall’abuso digitale che si riscontrano più frequentemente.
Il multitasking non esiste. Facciamocene una ragione.
Anche il mito del multitasking ha dovuto fare i conti con la realtà. Il multitasking non esiste per come lo immaginiamo, è una grande menzogna, come anche recentemente ci ha ricordato Annamaria Testa. Lo smart working richiede nuove modalità di lavoro.
Il nostro cervello, fa sempre e solo una cosa alla volta. Quando si trova svolgere più compiti contemporaneamente dà l’impressione che non sia così perché può essere molto veloce. In realtà però porta avanti più progetti contemporaneamente, concentrandosi ora su uno, ora sull’altro.
Quando ad esempio scriviamo una post e contestualmente parliamo al telefono il nostro cervello per una frazione di secondo scrive e per un’altra frazione parla al telefono. Ciò comporta un gran dispendio di energie e porta a risultati spesso qualitativamente inferiori rispetto a quello che crediamo.
Lo scienziato del MIT Earl Miller ha dimostrato che il multitasking provoca un deficit cognitivo, perché genera errori dovuti a mancanza di attenzione e la University Of London ha constatato che, in chi gestisce più attività cognitive allo stesso tempo, il QI raggiunge livelli simili a quello di chi ha fatto uso di marijuana.
Il multitasking non esiste. Facciamocene una ragione.
La cosa peggiore è che i danni possono diventare permanenti. Per esempio, uno studio della University of Sussex ha dimostrato che nei “multitasker” l’area del cervello responsabile per l’empatia e il controllo delle emozioni è meno sviluppata. Personalmente non mi stupirei se vi fossero danni anche sulla nostra capacità di memorizzare.
Inoltre ogni volta che completiamo un compito, che sia l’invio di una mail o la sistemazione del nostro desktop, il nostro corpo rilascia dopamina, un ormone che ci stimola l’effetto “ricompensa”.
Questo ci allontana dal concentrarci su progetti complessi e può provocare nel tempo una sensibile riduzione del quoziente d’intelligenza e soprattutto generare comportamenti che tendono sempre più a ignorare ciò che è più rilevante per noi.
Il costante passare da un’attività all’altra incoraggia il nostro cervello a sviluppare pessime abitudini e lo smart working non fa che peggiorare la situazione. Sovraccarichiamo la nostra memoria a breve termine e di lavoro e smettiamo di nutrire quella a lungo termine, dove sviluppiamo le nostra capacità cognitive più evolute. Ti è mai capitato di fare mille cose in un giorno e poi di non ricordare esattamente quali? Cosa ti resta il giorno dopo? Cosa hai realmente appreso?
L’uso eccessivo dello smartphone può provocare dolori articolari e muscolari. Alcuni studi internazionali hanno evidenziato che il 70% degli adolescenti manifesta dolore al collo, il 65% alla spalla e dolore al polso e alle dita nel 46% dei casi. Anche la vista viene messa a dura prova a causa delle luci blu degli schermi e della lettura talvolta difficoltosa dei caratteri.
La situazione è più seria di quanto crediamo. Quasi tutti noi infatti stiamo diventando dipendenti dai nostri cellulari senza accorgercene.
Cosa possiamo fare dunque per migliorare le nostre performance e in generale la nostra vita lavorativa e privata?
I trucchi possono essere molti, come quelli riportati anche in modo semplice ma esaustivo nel bel libro di Monica Bormetti “#Egophonia, gli smartphone tra noi e la vita”, ma quello che occorre è soprattutto una cultura per utilizzare in modo consapevole e cosciente smartphone, tablet e simili, recuperare sane abitudini di vita e prenderci tempo per le nostre attività fisiche, sociali e culturali.
Per questo da anni inserisco in ogni mio corso un modulo specifico su come migliorare la produttività, come intervallare momenti operativi e altri di studio e in generale come avere un rapporto equilibrato con le nuove tecnologie, in modo che ci siano di supporto e non di ostacolo.
Tra pochi giorni è Natale. Se vogliamo farci un regalo intanto stacchiamo un po’ il cellulare e recuperiamo tempo di qualità per noi, per le persone a noi vicine e per l’ambiente.
Saper lavorare bene in smart working d’altronde significa anche sapere quando è ora di staccare la spina! Buone Feste e buon digital detox!
9 marzo 2020: inizia il lockdown in Italia. Da allora il tempo che abbiamo trascorso su pc e cellulari si è dilatato provocando diverse reazioni. In questo articolo, senza velleità di completezza o di illuminazione, propongo alcuni pensieri sparsi per prossime e future riflessioni.
Alcune sere prima a Reggio Emilia, come in altre zone rosse, era già scattata la chiusura (mi pare fosse la sera del 7). Ricordo quel momento in cui improvvisamente, in una pausa tra un primo e secondo tempo di un film ci ritrovammo prigionieri in casa. Ero sul divano con il mio compagno. Mi voltai. Eravamo scioccati: i nostri sguardi di colpo erano mutati. Era cominciata la prima pandemia nell’era digitale.
Sono passati diversi mesi da quel momento e abbiamo tutti vissuto mille emozioni e pensieri contrastanti, tra timori, appelli alla responsabilità, misure talvolta discutibili, proclami, decreti, fasi 1-2-3, notizie contraddittorie, slanci emozionali, crisi economica, interminabili video chiamate, conteggio dei morti, numeri impazziti, neo-ecologisti, smart working forzato, teorie complottiste, opinioni di virologi, maghi e tuttologi.
Anche io come tutti noi ho avuto modo di leggere, documentarmi e ripensare alla mia vita, alla società, alla politica. Nel fare questo sono state di grande aiuto alcuni studi di filosofi del passato e del presente, i corsi all’Università e le conversazioni con amici medici e ricercatori.
Voglio qui condividere alcune riflessioni in relazione al ruolo del digitale nell’epoca della pandemia del nuovo coronavirus. Chiaramente non mi pongo l’obiettivo di spiegare o interpretare in modo sistematico cosa stia accadendo né tantomeno di tracciare un possibile percorso di uscita. Lo scopo di questo post è solo quello di porre attenzione su alcuni temi che mi auspico possano essere utili al fine di un dibattito sull’uso del digitale all’interno di contesti di crisi.
Papa Francesco celebra la Via Crucis in una piazza San Pietro deserta. 10 aprile 2020 (AP Photo/Andrew Medichini, Pool) – Da https://www.ilpost.it/
Uomini senza gregge
In quanto esseri umani necessitiamo del gruppo. Senza gregge moriamo. Milioni di anni di evoluzione ci hanno portato a sviluppare anche a livello biologico e organico una serie di capacità assolutamente necessarie alla nostra sopravvivenza. Dall’apparato fonatorio alla struttura celebrale, dai muscoli facciali alla capacità di gesticolare tutto è “pensato” per un animale incapace di vivere altrimenti. Siamo talmente umani che se privati di contatti deperiamo fisicamente e psichicamente. Da bambini non possiamo fare a meno degli altri e anche in età adulta, tranne rarissimi casi che possiamo confinare quali eccezioni, non ci è pensabile a un’auto-sufficenza economica, emotiva, psicologica. Solo bestie e Dei possono vivere fuori da una comunità secondo Aristotele. Eppure in caso di epidemie come quella che stiamo vivendo questo principio entra in conflitto con la necessità di arginare la diffusione del virus. Per una volta essere tutti insieme potrebbe risultare uno svantaggio più che un vantaggio. Come possiamo risolvere questa contraddizione?
Oriente-Occidente: un cambio di paradigma?
Una malattia arrivata dall’Oriente e che nell’Oriente ha trovato le soluzioni poi applicate a tutto il mondo. La cultura occidentale ha perso il suo primato nell’offrire risposte comuni. Migliaia di anni di cultura liberale sembrano dissolti lasciando residui in piccoli gruppi che, tuttavia, non riescono a fare breccia nell’opinione pubblica, in parte per il terrore generalizzato e globale, in parte a causa delle fallacie intrinseche a certe improbabili argomentazioni. Insieme all’accettazione di misure eccezionali per i nostri sistemi di valore, stiamo facendo nostra anche un’estetica del distanziamento e dell’urbanizzazione tipica del sol levante. La pandemia nell’era digitale ha trovato nella Cina e nell’Estremo Oriente un modello di riferimento universale. Mascherine, biciclette, monopattini e modi stessi della relazione stanno mutando il nostro modo di guardare il mondo ogni giorno, non senza conflitti e paradossi, ma in modo a mio avviso molto rapido.
Pandemia nell’era digitale: un mondo a tutto schermo?
Il digitale ha rappresentato la condizione di necessità per realizzare un lock down come lo abbiamo conosciuto. Senza tecnologie che permettono di comunicare, lavorare, offrire servizi di ogni genere, non sarebbe infatti stato possibile chiudere in casa per due mesi milioni di persone. Tra VPN, smart working, e-commerce, Skype, Zoom e Whatsapp questi mesi sono trascorsi per molti di noi davanti a uno schermo e non ci è voluto molto per accorgerci delle potenzialità e dei limiti di una comunicazione mediata. Già il fatto di non guardarci negli occhi (per vedere l’interlocutore siamo costretti a fissare il monitor) provoca un senso di forte straniamento. Mancano poi tutti quegli elementi extra-verbali fortemente informativi. Le difficoltà di interpretare parole e gesti si sovrapponevano a quelle di connessioni a volte instabili. Distrazioni continue tra notifiche e aggiornamenti hanno reso spesso un inferno certe riunioni e anche i party on line si sono presto rivelati per ciò che erano: tristi feticci di socialità.
Diritto al digitale / Diritto all’analogico
Ci penserà poi il computer. Così si intitolava un album de “I Nomadi” che girava per casa quando ero bambino. E davvero i computer ormai pensano per noi. Algoritmi sempre più complessi possono predire e orientare le nostre scelte, Google Lens permette di riconoscere oggetti e di acquistarli senza nemmeno sapere cosa siano, addirittura, come spiegava qualche giorno fa Riccardo Luna su Repubblica, di risolvere equazioni e problemi matematici. Tra un po’ si prenderanno anche la Settimana enigmistica e addio parole crociate.
In questo mondo digitalizzato, sempre più frammentario e sempre più uguale in ogni luogo al contempo, il tempo muta il suo senso. Tutto è sempre disponibile e destinato all’oblio, sopraffatto dall’ennesima novità, da un’ulteriore upgrade.
Come affermavo poc’anzi senza un supporto tecnologico tanto pervasivo e potente non sarebbe stato possibile realizzare il più grande esperimento di massa della storia. Dico questo senza alcuna vena polemica. Prendo atto semplicemente di vivere una situazione inedita. Non che siano mancate pestilenze ed epidemie di ogni genere ma le condizioni storico-sociali, tecnologiche, lo stato di avanzamento della ricerca medica, il contesto politico erano totalmente diversi.
Oggi possiamo fare tutto, o quasi, on line. Il punto per me è quindi quello di capire quanto questa sia data come possibilità o come obbligo. Il diritto, sacrosanto, a una società “smart” non dovrebbe mutarsi nella dittatura del digitale. La pandemia nell’era digitale rischia infatti di travolgere milioni di persone, per indole, età, confidenza con il pc, formazione o per scelta sono tagliate fuori da una storia che pare inevitabile ma che invece è tutta ancora da scrivere.
“Humanity beyond Humanity” è stato un TEDxTalk davvero emozionante.
❌ Felice e orgoglioso di fare parte di questo pazzo Team reggiano: un gruppo di sognatori e ricercatori che non si ferma davanti a niente e che è in grado di stimolare sempre nuove idee, emozioni e prospettive. Ecco il mio personale racconto della giornata!❌
Dynamo Velostazione, main location di Bologna Design Week, ospita Esprit du Vélo, un percorso di talk, concerti, spettacoli circensi, esposizioni e incontri per un futuro sostenibile. Eccocosa sto organizzando insieme a Simona Larghetti.
Bologna Design Week 2017, in sinergia con l’idea che il design crea tendenze anticipando “usi e costumi” del futuro, vedrà così il delinearsi in città di percorsi tematici, tra culture del progetto, fashion e food. Design e creatività, formazione e mondo produttivo rinnovano l’incontro a Bologna. Continue Reading