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Fake News: perché ci piace la menzogna

fake news

Un breve articolo per lanciare una provocazione in difesa delle fake news.

Ho sempre più l’impressione che la ricerca della verità (qualsiasi cosa si intenda con questa parola tanto facile da pronunciare e tanto difficile da definire) non sia una priorità nelle nostre vite.

Non tanto come Italiani o Europei o Americani o Russi o Brasiliani, ma proprio in quanto specie mi sembra che ci si affanni molto di più nel cercare un senso in quello che facciamo, nel districarci dalla complessità del mondo tenendoci stretti ad alcune certezze, non importa di quale natura. 

Di una storia pare quasi più importante il mantenimento della coerenza formale interna rispetto all’aderenza di questa alla realtà. Nulla di particolarmente nuovo fin qui. Sono molti i filosofi e gli studiosi che prima di me avevano constatato tale inclinazione nell’essere umano e non pochi comandanti, tiranni e preti di ogni confessione (chiamateli come vi pare, su questi aspetti non credo che le differenze tra un imam e un rabbino siano tali da giustificare una qualche distinzione sul piano lessicale) ne hanno approfittato per conservare privilegi e poteri.

La mappa non è il territorio

Ora, come ogni riflessione che intende far luce su un fenomeno quasi genetico, il rischio di semplificare la realtà a vantaggio di una narrazione tautologica, appiattendo ogni differenza (un po’ come si fa con una cartina geografica in cui le montagne non godono di alcuna vista sulla pianura), è dietro l’angolo.

Tuttavia non credo di essere io ad appiattire la realtà, ma il mondo dell’informazione “istituzionale”.

Guardiamoci attorno. 

Mi racconti una favola?

Oggigiorno i dibattiti elettorali sono diventati così ridicoli, autoreferenziali e privi di qualsivoglia attinenza alle minime regole della logica che nessuno li segue veramente. La politica è talmente distante dai cittadini che ormai non ci prendiamo più nemmeno la briga di andare a fare una X da analfabeti sopra qualche disegnino su un pezzo di carta, chiusi da tende impolverate e paratie di legno in vecchie scuole scalcinate. Perché dovremmo farlo?

Eppure la narrazione della democrazia procede allegramente tra sceneggiate, colpi di scena, boutade e mazzette. Un bel film a cui proprio evidentemente non vogliamo rinunciare.

Le cose esistono se se ne parla

Oppure le discussioni in merito alla partecipazione alla guerra in Ucraina, una situazione complessa e storicamente iniziata ben prima del 2022 di cui non si accettano argomentazioni in chiaroscuro, al punto da mettere a tacere il Papa, che da grande protagonista di ogni TG in Italia tre volte al giorno, viene confinato in servizi d’obbligo. Dall’imbarazzo generale di fronte alle posizioni del Pontefice contro il riarmo, definito “una follia”, al silenzio quasi totale rispetto agli ultimi interventi in Africa contro discriminazioni e depauperamento dell’ambiente per arricchire imprese private, sono tanti gli esempi in cui, se non di censura, potremmo almeno parlare di disinteresse nei suoi confronti. Molto meglio avere un eroe senza macchia e senza paura (noi Europei ovviamente insieme allo Zio Sam) e un cattivo pazzo (l’amico Vladimir del Cavaliere e di tanti altri che oggi nascondono mance e regalìe).

D’altronde anche Harari ci ricorda come uno dei metodi utilizzati per spiegarci il mondo consista proprio nel rimpiazzare l’ostica materia geopolitica con storielle semplici alla portata di tutti, che non richiedano particolari sforzi cognitivi, conoscenze pregresse e messa in discussione dello status quo.

Ma tra il Putin cattivo e il buon Biden, un Papa che non si allinea con uno o con l’altro dove lo mettiamo? Più facile farlo sparire.

Quindi il tema a mio avviso non è tanto proteggerci dalle fake news, che tra l’altro se non sei imbecille nove volte su dieci si riconoscono all’istante (sebbene sarà sempre più difficile con tutto l’armamentario tecnologico per produrre deep fake), ma le News con la “N” maiuscola. Il problema non è rappresentato da qualcosa di malato in un sistema sano ma da un organismo totalmente malato, allo stadio terminale, ormai necrotizzato. Non sto parlando solo delle redazioni ridotte all’osso, della dipendenza totale dagli inserzionisti e dalle dinamiche caratteristiche del newsmaking. Credo che davvero occorra una riflessione radicale.

Da dove cominciare? Chi può attivarsi per “guarire” questo corpo malato? Chi dovrebbe mettersi in prima linea?

Così, a occhio, potremmo essere tentati di investire di tale responsabilità i giornalisti stessi, ma la maggior parte di questi sono operai sottopagati, a contratto, che temono la concorrenza di tirocinanti e di ChatGPT, che leggono stancamente le veline dell’ ANSA o che si attaccano all’ultimo scandaletto per riempire una colonna, ingranaggi anch’essi di un meccanismo che fagocita ogni tentativo di ridare dignità alla professione. Non si alzano dalla scrivania, non indagano, non capiscono nemmeno quello che raccontano. Alcuni di loro hanno anche problemi con la lingua italiana. Non tutti, chiaramente, ma buona parte della categoria, in buona o in cattiva fede, non offre un buon servizio.

Dis-informa. E la disinformazione è l’humus ideale per le bufale.

In tanti credono alle fake news perché nella realtà non c’è un limite all’idiozia umana.

Ecco perché intendo difendere le fake news. Non in quanto tali, non perché buone, non perché sane. Ma perché senza un contesto il cattivo appare molto cattivo e il buono molto buono.

Un po’ come parlare del Covid, di Guerre Stellari o delle Brigate Rosse senza capirne contorni, sfumature, ragioni storiche, corresponsabilità, interessi condivisi, geografie semantiche, ruoli, effetti a breve e lungo termine, gradi di parentela, intrecci.

Viviamo situazioni talmente complesse, surreali e distopiche da renderci difficile credere o no a qualcosa, discerne accadimenti rilevanti e opinioni autorevoli dal mugugno di massa, dalle im-probabili fesserie complottiste e dalle opinioni di sedicenti esperti privi di dignità.

La post-verità è il limite estremo e paradossale della società dell’informazione? Rappresenta lo stadio finale di un’epoca illuminista i cui bagliori accecanti ci hanno condotto attraverso rivoluzioni e guerre in nome di princìpi ormai vetusti? O possiamo ancora fare qualcosa? Non trovo risposte convincenti in merito ma credo che prima di preoccuparci delle fake news dovremmo pensare alla qualità del sistema informativo nel suo complesso. E soprattutto creare un mondo un filo più giusto e ragionevole, in cui verità e menzogna siano facilmente distinguibili.

La verità è bella ma la menzogna seduce

Se è vero che ci piacciono le menzogne e che anche il sistema informativo ufficiale e istituzionale mente, omette, distorce a piacimento i fatti per fini propagandistici, commerciali o di presidio del potere, allora perché prendersela con le fake news? Prendiamocela con chi è responsabile di informarci correttamente e soprattutto con noi stessi, creduloni ignoranti.

Dopo tutto quello che è successo nella storia dell’umanità crediamo ancora al primo che passa, alla nenia consolante dei talk televisivi, all’immondizia informativa sui social, al politico che ha carisma. Non sono che narrazioni, che ci piacciono finché fanno comodo.

Non mi attendo al momento che algoritmi di società profit si preoccupino di qualità della vita, benessere delle persone, degli animali e dell’ambiente, di equità sociale e non ritengo nemmeno auspicabile la censura preventiva. Credo che davvero, per quanto possiamo impegnarci sia impossibile, nel “villaggio globale” di Marshall McLuhan, riuscire a comprendere ciò che accade. Cosa possiamo realisticamente sapere della manutenzione di un ponte, dei prodotti finanziari evoluti, di come dovremmo riorganizzare il sistema sanitario pubblico sfinito, delle lotte dei lavoratori in Cina, di come gestire i flussi migratori o dei progetti espansionistici della Russia, di come ridurre l’inquinamento delle falde acquifere o migliorare la vita nelle periferie delle città? Troppo complicato. Euristiche e bias cognitive hanno la meglio. Il cervello rettiliano prevale soprattutto in un mondo in cui è più rilevante la velocità di risposta che la sua esattezza.

Continuiamo a ritenerci molto più intelligenti di quello che non siamo, ma la realtà è che spesso siamo molto stupidi (e spesso quelli più stupidi credono anche di sapere cosa devono fare gli altri).

Ciò che mi piacerebbe è che ci svegliassimo un po’ più umili e un po’ meno fanatici oppure che almeno ammettessimo candidamente che, in fondo, il fake ci piace.

Viaggio nelle profondità delle Dating App

incontro tramite dating app

Con San Valentino alle spalle oggi possiamo concentrarci sul mondo dei single, per certi versi più affascinante e interessante. Sia nel caso non si abbia un partner per propria volontà o sfortuna, il mondo digitale giunge in soccorso per animare la situazione. Oltre a Tinder e Grindr esistono centinaia di dating app caratterizzate da specifici interessi, non senza sorprese. Eccone alcune per chi vuole sperimentare una “ricerca dell’amore” differente.


Le dating app sono un universo ricco e tutto da esplorare. Tra chi ci trova l’amore di una vita, chi un modo per riempire una serata vuota e chi prova ad uscire dalla propria comfort zone, sono moltissime le opportunità che Internet porta con per chi cerca amore, o almeno qualche brivido di passione.

Opportunità frutto anche di menti che guardano oltre, capaci di immaginare i modi più strani per incontrare l’anima gemella. Per preparare questo piccolo articolo sono sceso nei meandri delle dating app: grattando sotto la superficie delle più conosciute come Tinder, Grindr, Badoo e Meetic si trovano infatti app specializzate per ogni tipo di ricerca. Dalle più classiche come Bristlr, destinata per matchare solo persone barbadotate, e Tallfriend, per incontrare gente letteralmente alla propria altezza, si scende fino a Clown Dating, Furry Mate e Vampire Passion.

Ritengo che uno dei principali requisiti di una dating app sia la quantità di utenti presenti. Potrei anche proporti l’app che fa al caso tuo, ma se a usarla siete tu, Jess Smith (Ohio), Shiro Sukuzi (Sendai) e gli sviluppatori non penso potresti avere molta libertà di manovra.

Ecco allora una lista si particolari app di incontri (non mainstream) con una certa possibilità di successo: 

Grazer: la dating app vegan

Qualcuno diceva “siamo ciò che mangiamo”. Chi ha creato Grazer deve averci creduto molto. Quest’app infatti è dedicata nello specifico agli incontri per vegani e vegetariani.  Tramite la geolocalizzazione è possibile matchare con partner che condividono i propri valori gastronomici, visualizzando foto e descrizione. Da chi vuole semplicemente cercare partner dai gusti affini a veri e propri attivisti animalisti, gli utenti di Grazer almeno non ti proporranno mai un primo appuntamento da McDonald.  

Happn per i colpi di fulmne

Quante volte abbiamo incrociato lo sguardo di qualcuno in bus rimanendo fulminati? In meno di una fermata abbiamo già immaginato il primo appuntamento, il matrimonio e la vecchiaia insieme. Happen intende fornire un piccolo aiuto a queste situazioni. Quando due utenti si incontrano infatti lo smartphone segnala i rispettivi profili e a fine giornata è possibile passare in rassegna tutti gli utenti incontrati. Sia mai che il nostro colpo di fulmine si trovi tra di loro. In seguito, come con Tinder, se i due si piacciono a vicenda è possibile iniziare a conversare e conoscersi. 

Muzing per uscite culturali

Quest’app è per tutti gli amanti dei musei e delle mostre. Promettendo di essere il nuovo Tinder della cultura, Muzing presenta un calendario costantemente aggiornato con tutte le manifestazioni ed eventi culturali nel mondo. In base alle affinità culturali è infine possibile incontrare persone con gusti simili e fissare degli incontri per conoscersi meglio tra un’opera e l’altra. Affinità elettive e interessi culturali potranno farti uscire dalla singletudine?

Once: slow love

Once non ti offre tutto ciò che gli capita a tiro nei dintorni. A differenza delle principali app di dating, non sarai sommerso da un’infinità di profili tra cui scegliere, ma avrai a disposizione quattro utenti al giorno tra cui decidere. Ciò è possibile grazie a uno studio di corrispondenza apparentemente più approfondito che cerca di garantire la qualità dei match più che la quantità. Per questo motivo è anche l’app prediletta da chi cerca relazioni a lungo termine. Ma funzionerà?

The Inner Circle: gli hobby al centro

Esistono persone con troppi interessi, altre che non ne hanno e poi ci sono quelli che verrebbero definiti “fissati”: un solo interesse a cui dedicare anima e corpo. Per quest’ultima tipologia The Inner Circle è l’ideale. L’app infatti propone profili di utenti che condividono lo stesso hobby. Se non dovesse andare in porto almeno avrai incontrato qualcuno con cui parlare liberamente di ciò che più ami.

Ci sono altre centinaia di modi per incontrare persone a partire da piattaforme digitali ma questa selezione vuole essere di aiuto a tutti coloro che, per timidezza o mancanza di tempo, faticano a trovare un partner. 

E per chi proprio non vuole scaricare, iscriversi e creare profili online ricordo che c’è sempre un mondo fisico in cui incontrare persone in carne e ossa e che ogni momento può essere quello giusto!

SEO e WordPress: come partire?

Per fare SEO su WordPress, ci sono diverse cose che puoi fare, per migliorare il tuo sito e quindi aumentare il suo ranking sui motori di ricerca. Innanzitutto, dovresti assicurarti di avere una buona struttura del sito e una navigazione facile e intuitiva. Inoltre, potresti utilizzare un’estensione SEO per aiutarti a ottimizzare i tuoi contenuti.


Per fare SEO su WordPress ci sono diversi modi. Uno di questi è installare un plugin SEO come Yoast SEO, che ti permette di ottimizzare il tuo sito in modo facile e veloce.

Ci sono molti plugin SEO per WordPress che possono essere utilizzati come alternativa a Yoast SEO. Alcune delle opzioni più popolari includono:

  • All in One SEO Pack (in versione gratuita o premium)
  • Rank Math
  • SEOPressor
  • The SEO Framework
  • Google Site Kit
  • SEO Squirrly

Tutti questi plugin offrono funzionalità simili a quelle offerte da Yoast SEO, come il controllo dei metadati, la generazione di sitemap e l’ottimizzazione delle parole chiave. Scegli quello che ritieni possa soddisfare al meglio le tue esigenze.

Una volta che hai installato il plugin, puoi seguire questi passi:

  1. Assicurati che il tuo sito sia facile da navigare e che i contenuti siano ben organizzati, in modo che i motori di ricerca possano facilmente capire di cosa parla il tuo sito.
  2. Aggiungi un titolo e una descrizione univoca a ogni pagina del tuo sito. Queste informazioni verranno mostrate nei risultati di ricerca, quindi è importante che siano accattivanti e che forniscano agli utenti una buona idea di ciò che troveranno sul tuo sito.
  3. Utilizza le parole chiave appropriate in tutti i tuoi contenuti. Se stai parlando di un argomento specifico, assicurati di utilizzare le parole chiave pertinenti in modo naturale nei tuoi titoli, nelle intestazioni e nel testo.
  4. Crea contenuti di qualità. I motori di ricerca premiano i siti che pubblicano contenuti originali e di qualità. Assicurati di offrire informazioni utili e accurate ai tuoi lettori e di aggiornare regolarmente il tuo sito con nuovi contenuti. Anche stile e Tone-of-Voice dovrebbero essere allineati e coerenti.
  5. Ottimizza le immagini del tuo sito. Assicurati di utilizzare nomi di file descrittivi per le tue immagini e di aggiungere i tag alt per ogni immagine. Questo aiuta i motori di ricerca a capire di cosa trattano le tue immagini e migliora la tua visibilità online.

Sono tante le attività che possiamo svolgere: inserire link interni ed esterni, prestare attenzione ai titoli, inserire elenchi puntati e altri elementi che facilitino la lettura, verificare la velocità di caricamento degli elementi nella pagina, etc. Fin qui dunque la parte tecnica che tuttavia deve sempre essere vista all’interno di una visione più ampia.

Non prendiamo come vere tutte le indicazioni che ci vengono fornite dai tools e dai plug-in di cui si è parlato. Ad esempio la keyword density, ossia la presenza di parole chiave in un testo, non è un fattore fondamentale. Le indicazioni del plugin Yoast riguardo la densità delle parole chiave nel testo possono essere tranquillamente ignorate. Ciò che non dobbiamo ignorare invece è il nostro pubblico. Capire come stimolarlo, interessarlo e coinvolgerlo, a volte stupirlo o lasciarlo con un dubbio.

Se sei giunto fin qui ho una rivelazione da farti. Questo breve articolo è stato scritto anche grazie all’utilizzo di ChatGPT. In questo periodo sto sperimentando un po’ di possibili applicazioni dell’Intelligenza Artificiale per la generazione di immagini, come nel caso del mio regalo di Natale ai clienti, e cercando di capire un po’ meglio di cosa si tratta. Per questo sto esplorando il mondo dell’intelligenza artificiale, con curiosità e a volte un po’ di inquietudine, nella volontà di capire come macchine e uomini possano collaborare e per la prima volta me ne sono avvalso per la stesura, in parte, di un testo.

Perché ho deciso di far parlare proprio di SEO a una IA? Chi scrive per il Web sa bene quanto sia importante seguire alcuni principi utili per massimizzare la propria capacità di diffusione tramite motori di ricerca. A volte diamo anche troppa importanza a ciò che può piacere a un algoritmo, dimenticandoci per chi stiamo scrivendo davvero, il nostro target.

L’implementazione delle Intelligenze artificiali nella stesura di un testo potrebbe comportare un ulteriore passo avanti definendo un nuovo panorama nella content creation. Pe esempio potrebbe avvenire una ridefinizione delle stesse modalità di indicizzazione, per favorire maggiormente contenuti utilizzabili dalle stesse IA per generare risposte adatte alle domande dell’utenza.

Voglio lasciare la chiusura proprio a ChatGPT: ecco come terminerebbe un articolo su SEO e WordPress.

Spero che questi consigli ti siano stati utili. In generale, fare SEO su WordPress richiede un po’ di tempo e di impegno, ma può aiutarti a migliorare la visibilità del tuo sito e aumentare il traffico verso di esso.

Metaverso e design tra virtuale e fisico

metaverso - Alessio Conti digital marketing and communication design

Del metaverso si è parlato ampiamente, analizzando le sue possibilità future e attuali. Un aspetto importante che però tengo a sottolineare è come il design, nelle sue diverse declinazioni e settori, sia riuscito a intravedere per primo il potenziale fornito da un mondo costruito su codici informatici e segnali elettrici. Dal fisico al digitale, questa nuova frontiera permette di sperimentare nuovi modi di progettare e riflettere sull’esperienza utente.

Sono già molti gli esempi che ci giungono dagli ambienti della moda e non solo. Anche l’architettura e l’interior design infatti sono diventati elementi centrali che caratterizzano questa nuova tecnologia. Se il Metaverso vuole svilupparsi come mondo parallelo, avrà bisogno di riempire e strutturare i suoi spazi. 

In uno scenario in cui le leggi della fisica possono essere spezzate come grissini, assume tutt’altro senso la classica frase “l’unico limite è la propria immaginazione” e pensando come questa tecnologia si trovi ancora in una fase primordiale possiamo già farci un’idea sul futuro che il design andrà ad assumere.

Quando il marketing si fa mondo (nel metaverso)

Gli esempi più evidenti ed extracitati, come The Sandbox e Decentralend, rappresentano un primo step. Sono mondi messi a disposizione di chiunque voglia immergersi in un ambiente digitale suddivisi per terreni acquistabili ed edificabili. I grandi brand poi si sono impegnati per costruire strutture e spazi tematici per fare del design digitale un’esperienza brandizzata.

Questo è forse una naturale e per certi versi scontata evoluzione del marketing. All’origine era il prodotto il fulcro attorno a cui ruotano tutte le comunicazioni di un brand. Poi, sommersi da migliaia di prodotti tutti simili tra loro, siamo passati a raccontare storie appassionanti e coinvolgenti. Infine, anche quando le storie sono iniziate a diventare troppe, abbiamo deciso che la prossima frontiera sarebbe stata l’esperienza di vita quotidiana del nostro cliente. Con a disposizione interi mondi ora l’esperienza può svolgersi in uno spazio (digitale) progettato ad hoc, in cui ogni stimolo, sonoro e visivo, viene a ricollegarsi a un brand preciso.

Design, marketing, tecnologia. Tre concetti che in questo periodo stanno evidenziando le loro interconnessioni dirette. II nuovi sviluppo tecnologici ci permettono di vedere come la progettazione di una strategia di comunicazione possa assumere una sua concretezza “fisica” in un ambiente digitale. 

Uno step verso la nuova generazione di clienti

Le potenzialità di questo ambiente mirano a coinvolgere un pubblico che non ha memoria di un mondo senza internet e strutture digitali. Infatti bisogna prendere in considerazione che in parte Millennial, Gen Z e Gen Alpha sono e saranno i futuri utenti a cui le comunicazioni saranno rivolte. 

In questo senso si potrebbero interpretare anche le colonizzazioni di ambienti videoludici come Fortnite e Roblox da parte di diversi brand: raggiungere i consumatori nei loro spazi preferiti offrendo esperienze uniche e di valore declinando la propria realtà secondo i codici di questi spazi.

La nuova generazione di consumatori vorrà e potrà godere di nuove tipologie di esperienze d’acquisto? Il metaverso potrà costituire la base di partenza su cui svilupparle? Perché limitarsi a mostrare un prodotto, quando può diventare esso stesso un livello in cui muoversi e fare esperienza? 

L’esempio di Playstation

Playstation, per mostrare tutte le capacità della propria console di ultima generazione, ha sviluppato un intero videogioco, Astro’s Playroom, in cui le componenti hardware diventano livelli da esplorare per portare a termine diverse missioni. In questo modo l’utente non sta semplicemente giocando, sta facendo esperienza del brand Playstation, della sua storia e della sua tecnologia, per comprendere come la realtà virtuale riesca a interagire con il mondo del design espandendo i confini e potenzialità. 

E il mondo fisico resta a guardare?

Un altro aspetto che caratterizza il rapporto tra design e realtà virtuale è anche la stratificazione su più livelli. Infatti finora abbiamo parlato di design con accezione digitale, come ambienti creati tramite software. Per accedervi dobbiamo ricordare che avremo sempre bisogno di un dispositivo materiale tramite cui collegarci e in grado di farci rapportare con le diverse esperienze. Quindi è necessario rivolgere la nostra attenzione anche a questi ultimi.

Che si tratti di realtà aumentata o virtuale avremo sempre bisogno di confrontarci con prodotti fisici. Per quanto riguarda la VR, maggiormente al centro di questa mia riflessione, sono molti i dispositivi che ci vengono messi a disposizione. Primo tra tutti è ovviamente un visore, strumento indispensabile per osservare “l’altro mondo”. In secondo luogo avremo bisogno di un controller per interagire con l’ambiente circostante. Con un intero mondo da esplorare sarebbe limitante non potersi muovere liberamente oppure seguire binari prestabiliti dal software.

Dispositivi per mondi inclusivi

Visore e controller costituiscono i pilastri per poter accedere al metaverso e iniziare a fare esperienza di un metaverso immersivo, ma l’interazione può essere arricchita attraverso altri strumenti che vanno a coinvolgere udito e tatto, per permettere il massimo coinvolgimento dell’utente all’interno di un mondo assente.

Riflettere sulle periferiche esterne è importante anche come esercizio per osservare come si è scelto di rispondere a una serie di bisogni e limiti e quanti ancora devono trovare soluzione per essere soddisfatti. Per esempio, in termini di inclusività, la realtà virtuale immersiva sembra traballare di fronte alla cecità. Questa può portare alla progettazione di esperienze virtuali che fanno del sonoro la loro priorità, più che la vista. 

Quante esperienze virtuali saranno state sviluppate? Quali altre strategie saranno implementate dai brand? Il metaverso sarà diventato un posto più ricco e accogliente? Che passi saranno stati fatti per renderlo disponibile a tutti?

A mio avviso le perplessità restano molte ma è indubbio che molti brand stiano puntando su questa frontiera digitale per progettare esperienze sempre più accattivanti, almeno per alcuni segmenti di pubblico. Non mancano i tentativi andati a vuoto, i detrattori, gli insuccessi commerciali (basti pensare alle previsioni che vedono l’avverarsi del metaverso solo dopo il 2030 o gli scadenti risultati di Meta nell’ultimo anno con relativi annunci di tagli al personale e outlook negativi per i prossimi mesi), ma non per questo possiamo spegnere le luci sulle sue potenzialità.

Ancora una volta il futuro digitale, e non solo, manifesta incertezze e apre a possibilità senza fornire risposte. Il design e l’architettura sapranno approfittare del metatarso? In che modo?

Digital Divide e Cittadinanza Digitale

digital divide mani aggrapate a una rete di divisione

Il mondo digitale dispiega opportunità incredibili, facilita i processi e gli scambi di informazioni, rimodella la nostra dimensione di vita arricchendola di stimoli, abbattendo barriere. Tutto questo però non certo in modo uniforme e ugualitario. Parleremo di digital divide alla prima edizione della “European Digital Citizenship Day” di cui Social Warning ne è capofila.

Mentre una parte della popolazione padroneggia pienamente gli strumenti, una buona fetta è esclusa da tutto ciò. Con gravi ricadute in termini sociali ed economici.

Siamo davvero pronti a un’Era totalmente digitalizzata? Sarebbe auspicabile uno scenario di questo tipo? Abbiamo il giusto grado di conoscenze e consapevolezza perché questo si realizzi? La risposta per molte realtà è no. Il digital divide è un fenomeno ancora troppo presente.

A livello mondiale le disparità sono incommensurabili. Pensiamo banalmente all’accesso all’istruzione e alle reti, senza tener conto delle limitazioni imposte dai diversi regimi. Anche gli algoritmi in realtà nascondono insidie spesso mascherate da termini come “ottimizzazione dell’esperienza utente” che in realtà propongono e ripropongono post orientati a modificare le nostre emozioni, i nostri desideri e le nostre pulsioni. 

Pensiamo alle difficoltà derivanti banalmente dall’età o dal livello di istruzione, dalle competenze tecniche e dalle capacità cognitive. Pensiamo solo a quanto accade in Italia.

In buona parte del “fu” BelPaese non c’è segnale, manca la fibra ottica e non è raro ancora vedere rabdomanti digitali alla ricerca almeno di un 3G.

In un mondo in cui anche per fare un documento all’anagrafe è necessario registrarsi e accedere con SPID, come intendiamo gestire queste problematiche? Come possiamo assicurare l’accesso democratico all’informazione? Se è necessario garantire la digitalizzazione è altrettanto importante garantire modalità off-line, analogiche di accesso alle informazioni. E ancora: a quali informazioni accediamo davvero? Se Google diviene il principale mezzo di ricerca otterremo sempre gli stessi esiti. Un sapere apparentemente infinito che si riduce ai risultati della prima pagina di Big G. Un po’ triste vero?

Il tema del digital divide è spesso associato alla presenza/assenza di supporti tecnologici ma  come stiamo notando il problema è ben più complesso e ci invita a una riflessione più attenta. Partiamo da alcuni spunti molto concreti.

Il punto sulla nostra situazione sul digital divide

Spesso, lavorando quotidianamente con strumenti digitali, pensiamo di essere in grado di raggiungere chiunque, sempre e in qualunque parte del mondo. Questo perché estendiamo le nostre possibilità, date dal nostro contesto di appartenenza, a tutti gli altri.

Ma dati alla mano la realtà dei fatti è un altra. 

Limitando la nostra attenzione al territorio italiano possiamo scoprire che, secondo uno degli ultimi rapporti Auditel-Censis, nove milioni di famiglie vivono in condizioni di totale o parziale esclusione dalla partecipazione digitale.

Gli scenari poi sono i più vari: da chi non ha accesso continuo alla rete a chi ha una bassa qualità di connessione, a chi riesce ad accedere solo tramite smartphone fino a chi è totalmente escluso.

Possiamo soltanto immaginare la gravità dell’impatto a livello sociale di situazioni così critiche specie durante il lockdown. Infatti se le misure intraprese hanno limitato la diffusione dell’infezione da Sars-Covid-2 dall’altro hanno evidenziato le gravi carenze infrastrutturali del nostro Paese. Il digital divide, come raccontato fin qui potrebbe sembrare solo una questione di strumenti e tecnologie, ma con questo termine si vuole indicare anche il gap al livello di conoscenze legate al mondo digitale.

digital divide folla che cammina per strada

Conoscenza sulla (dis)connessione digitale

Sviluppare una consapevolezza digitale implica prendere atto di queste situazioni. Limitare lo sguardo ai benefici e problemi causati della connessione, pur analizzando pro e contro, non ci restituisce comunque una visione di insieme sull’argomento. 

Proprio come nella letteratura positivista, in cui il focus è sulla portata innovativa di nuove tecniche e sviluppo sociale, anche oggi si costruisce una narrazione in cui il progresso tecnologico ci salva. Ma è davvero così?

Si possono conoscere tutti i migliori modi per sfruttare il mondo digitale a nostro vantaggio, aiutandoci nella vita quotidiana e sul lavoro ma possiamo essere coscienti anche di come Web e social possono diventare una gabbia.

Come ci insegna Verga, è necessario rivolgere lo sguardo ai grandi esclusi dalla strada del progresso. Questi vinti che non avevano già gli strumenti per lottare e che ora si trovano a confrontarsi con un mondo accelerato e complesso in cui le nostre capacità di comprensione dei fenomeni e di adattamento sono perennemente sotto stress. 

Io personalmente ho vissuto un’esperienza la scorsa estate che mi ha aperto gli occhi. Ho conosciuto un ragazzo di vent’anni italiano che parlava solo il suo dialetto locale e che sentendomi parlare in italiano e con un accento emiliano insisteva sul fatto che io fossi straniero. Pochi minuti prima stavo parlando di applicazioni su base blockchain e di futuro digitale mentre un’ora dopo mi trovavo al tavolo con turisti americani e australiani parlando in inglese. 

Lì ho capito che ci sono mondi che nemmeno si sfiorano, non si possono compenetrare e che i codici sono talmente diversi da rendere impossibile una comunicazione verbale. Ho anche capito quanto sia ignorante io, quante cose avrei da imparare da quel ragazzo che vive in una dimensione a me estranea e non lo dico da romantico nostalgico o rapito dal mito del selvaggio. Davvero mi parlava di un mondo a me sconosciuto, di pratiche di gioco, passatempi e silenzi che io non conosco, né potei mai conoscere in quei termini. I filtri ormai sono troppi e le associazioni al neorealismo o alle interviste di Pasolini nell’Italia degli anni ’60 sono state immediate. Il digital divide non è una discussione filosofica, è qualcosa che scava profonde ferite nella società. 

Ammettiamo questo esempio. Vivo in un piccolo borgo di montagna con pochi negozi. Se ho accesso alla rete e so utilizzare marketplace e pagamenti digitali posso trovare qualsiasi bene materiale o servizi anche di alta qualità e a costi inferiori. Viceversa dovrò accontentarmi della ridotta offerta commerciale in loco. In realtà i costi non sono solo economici e le ricadute a livello più ampio sono diversi per cui ci potremmo, e dovremmo interrogare, maggiormente su quello che accade nel momento in cui le attività di paese chiudono, o sul perché queste enormi Società quali Apple, Amazon e Google riescano ad approfittare di agevolazioni fiscali surreali (come spiegato bene da Riccardo Staglianò in “Gigacapitalisti”) mentre il bottegaio debba confrontarsi con aliquote a volte demotivanti.

Per ora ci soffermiamo sugli aspetti legati al primo livello, quello legato alla reiterazione e al rafforzamento delle disparità, per il semplice fatto di essere o non essere digitali.

Infatti il digital divide non è solo una causa dell’esclusione sociale: è anche un sintomo che si sviluppa da mancanze pregresse alle quali poi si aggiunge, andando a creare un ciclo vizioso dal quale diviene sempre più difficile tirarsi fuori.

digital divide rocce in equilibrio

Possiamo essere tutti cittadini europei digitali?

Questa è una domanda da porsi in vista del 22 Ottobre, Giornata Europea della Cittadinanza Digitale. In base a quanto osservato poco sopra, possiamo esserlo se chiudiamo gli occhi e tappiamo le orecchie, in modo da non vedere e ascoltare chi si trova in grave difficoltà, in un mondo che gli chiede di essere digitale, ma senza dare strumenti per esserlo. Non serve andare lontano. Abbiamo quasi tutti in famiglia una persona anziana o poco digitalizzata che ci chiede un aiuto con lo SPID o per accedere a un servizio online.

È evidente quindi che la risposta non può limitarsi a fornire buone connessioni e device per accedere alla rete. 

Se forniamo a un falegname e a un social media manager una sega elettrica, chi troveremo più facilmente al pronto soccorso, magari senza un dito? Esatto. Uno strumento potente in mano a persone che non hanno le corrette informazioni per utilizzarlo per rivelarsi un’arma con cui si può e ci si può fare del male. Quindi da dove partire per formare cittadini digitali, se non dall’insegnamento?

Comunicare il futuro con Movimento etico digitale 

Proprio dell’istruzione all’utilizzo degli strumenti digitali si occupa il Movimento etico digitale. Davide Dal Maso, ideatore del movimento, sui banchi di scuola ha preso consapevolezza dell’inefficienza delle lezioni legate alla sensibilizzazione al mondo digitale molto spesso impartite da figure lontane anni luce dalla realtà più attuale, non in grado di rispondere alle vere necessità di studenti nativi digitali, che riducono il tema del web alla pedopornografia o al cyberbullismo, problemi gravissimi ma grazie al cielo residuali rispetto ad altri ben più diffusi e spesso difficili da cogliere nella loro complessità.

Come riconoscere fonti affidabili di informazione? Come mantenere la propria privacy e rispettare quella degli altri in una realtà fondata sulla condivisione? Perché i social polarizzano le opinioni rendendoci meno sensibili alla diversità? Questi sono alcune questioni che hanno bisogno di essere approfondite. 

Dal Maso, e con lui tutto il movimento di cui anche io faccio parte, ha deciso di promuovere un insegnamento che coinvolge coetanei e professionisti del web per offrire risposte mirate alle diverse esigenze in continua evoluzione di studenti e anche genitori. Un dialogo, più che una lezione, tra giovani, dove ognuno mette a disposizione degli altri le proprie conoscenze e si rende anche disponibile a rivederle. 

Parlare dei rischi (senza creare timori o allarmismi) e delle potenzialità (aprendo a nuove prospettive) del Web è possibile. Nei miei corsi sul Digital Detox e benessere digitale non invito mai a prendersi un mese di ferie in completo isolamento nella natura selvaggia. Questo perché non è più in linea con il mondo che viviamo oggi, che ci richiede, per lavoro e vita privata, un certo grado di connessione. Allontanarsi completamente dalla quotidianità non è la risposta per cambiare le proprie abitudini, anche quelle digitali. Può essere utile, è vero, un momento di disintossicazione ma poi è importante implementare buone abitudini nella propria vita quotidiana, un po’ come per chi deve perdere peso o fare più attività fisica. A poco basterà una settimana di privazioni mentre l’adozione di comportamenti virtuosi nel quotidiano ci permettono di raggiungere risultati migliori e più duraturi, e di concederci ogni tanto anche una fetta di torta o un giorno di dolce far niente. Il primo passo è quindi riconoscere la necessità di un cambiamento e poi capire come attuarlo. 

Di questo parleremo il prossimo 22 ottobre Milano, un evento dal vivo promosso dal Movimento Etico Digitale proprio per riflettere sul rapporto tra educazione e cittadinanza digitale, guardando al futuro dell’istruzione in un mondo in continua evoluzione, per riflettere insieme su come stimolare il dialogo tra generazioni e sulle nuove responsabilità portate dall’abitare online.

Patagonia e KFC: buono e cattivo Brand activism

brand activism

Abbiamo potuto leggere numerosi articoli su Patagonia, il suo fondatore e la cessione della quasi totalità delle azioni a un Ente no profit per combattere il cambiamento climatico. Per questo motivo ho voluto estendere la riflessione, mettere a confronto due realtà guardando a come gestiscono (o provano a gestire) strategie di Brand activism. Perché se tutti possono sostenere una causa, in pochi sanno farlo bene.

Il fondatore di Patagonia ha trasferito il 98% delle sue azioni a un Fondo e un Ente per combattere il cambiamento climatico. La notizia è stata trattata come decisione rivoluzionaria, qualcosa che apre la strada a un nuovo modo di pensare di fare impresa. Questo è tuttavia solo l’ultimo step di una società che da sempre si è distinta nel mondo della moda, non limitandosi ad azioni sporadiche ma facendo del brand activism uno dei propri punti di forza. 

Ne parlo spesso nei miei corsi. Patagonia non è insolita infatti a campagne di sensibilizzazione sui temi ambientali. Alcuni di voi forse ricorderanno quella di “Don’t buy this Jacket” o le pagine sul sito durante le elezioni USA in cui si elencavano, indipendemente dal colore politico, i nomi dei candidati che si impegnavano contro il global warming.

A questo punto della storia però accade qualcosa che cambia ulteriormente le regole del gioco. Yvon Chouinard non sarà più il proprietario dell’azienda, ma supervisionerà il nuovo Fondo nato ad hoc, la Patagonia Purpose Trust, per garantire che i ricavati vengano devoluti per la causa che ormai segue da decenni. Attenzione, non è certo la prima volta che un imprenditore cede tutto a una Fondazione, spesso anche solo per vantaggi dal punto di vista fiscale, e si dedica ad attività filantropiche. Questa volta però c’è qualcosa di più e di diverso.

Facciamo un passo indietro per conoscere la vita del fondatore del brand prima ancora della nascita di Patagonia stessa. È in questo modo che troviamo la chiave di lettura corretta per comprendere questa sua ultima decisione. 

"Don't buy this Jacket" Patagonia Brand activism

L’attivismo prima del Brand

Nel 1947 Yvon inizia ad arrampicare e questo sport lo porta a vivere a stretto contatto con l’ambiente naturale che impara ad amare e rispettare. Col tempo inizia a studiare e produrre attrezzatura da arrampicata, arrivando a fondare, nel 1957, una prima attività commerciale. Col passare degli anni si accorge però che i chiodi utilizzati per le scalate stavano danneggiando quello stesso ambiente capace di regalargli grandi emozioni. Per questo motivo introduce intorno nei primi anni 70 nuovi modelli meno dannosi, sviluppando anche il concetto di “scalata pulita”. 

Questo è il primo segnale che ci permette di comprendere meglio le sue azioni successive.

Perché andare verso il Brand Activism

Un amore disinteressato per l’ambiente, presente ancora prima dello stesso brand: questo è ciò che definisce la potenza di Patagonia, portandola ad essere universalmente riconosciuta come una tra le prime “attività attiviste”. Infatti l’attenzione che Yvon riponeva nella produzione di attrezzatura che non impattasse sulla roccia si è trasferita nelle linee guida che hanno mosso l’azienda d’abbigliamento sin dalla sua nascita.

Patagonia non è solo un brand attento al suo impatto sull’ambiente: cerca attivamente soluzioni per far si di produrre un cambiamento sensibile. Questo discorso si inserisce a pieno in una fase di transizione che il mondo dell’imprenditoria che il marketing, quello buono, non può ignorare. Ormai costruire un’identità di marca unicamente attraverso i propri prodotti o servizi sta diventando via via insufficiente.

I consumatori si aspettano sempre più partecipazione da parte dei brand all’interno delle questioni sociali. I marchi non sono più considerati entità scollegate dal mondo, sono pienamente immersi nella contemporaneità e hanno più possibilità di introdurre un cambiamento, spesso più della stessa politica che si dimostra farraginosa, lenta e spesso insensibile rispetto ai temi che la società civile sente sulla propria pelle. Per un brand oggi è necessario prendere posizioni chiare e portarle avanti con coerenza: non agire è peggio che scendere in campo per la squadra avversaria.

Non tutte le attività possono divenire la nuova Patagonia, certo non dal giorno alla notte. Ciò che è alla portata di tutti invece è iniziare a muoversi concretamente, seguendo una causa e attivandosi per prendere parte a segnare il sentiero da intraprendere.

Ma come fare?

Evitare il “causa”-washing

Attivarsi per una causa a livello aziendale è una questione seria. Numerose attività si sono affacciate a questa strategia venendo solo un’ulteriore possibilità di marketing, portando addirittura alla creazione di un termine per indicare questo esatto comportamento: il [inserire nome della causa]-washing. Troppe volte infatti ci si trova di fronte ad azioni meramente di facciata, talvolta ridicole, altre volte capaci di compromettere la fiducia nel brand.

Essere accusati di sostenere una causa solo a livello superficiale può costituire un grosso danno di immagine, a volte difficilmente riparabile. Il primo consiglio che mi sento di dare è non avvicinarsi a questa strategia senza aver prima sviluppato una profonda consapevolezza su ciò che significa supportare attivamente una causa. In poche parole non inventarsi nulla, non raccontare bugie, non cavalcare onde emotive e non mentire rispetto a sé stessi e al proprio pubblico. Vero è che il consumatore medio può essere distratto o acritico ma prima o poi i nodi vengono al pettine e quando ciò accade, nell’era dei social, sono c****, per dirla in francese.

Da qui deriva anche un secondo punto: non bisogna avere fretta. Anzitutto perché comprendere quali cause supportare è un percorso interno, un guardarsi prima dentro, in modo sincero e poi diffondere all’esterno il messaggio trovando le parole giuste, curando ogni aspetto, prevenendo eventuali obiezioni e nella consapevolezza che, per quanto si facciano degli sforzi, si può sbagliare. Cercare di velocizzare il processo rende solo evidente che il fine ultimo non è garantire supporto, ma cercare di emergere, autocelebrandosi, e non è proprio il caso.

brand activism

Una volta deciso di intraprendere il percorso in una determinata direzione è necessario fornire con costanza prove del fatto che si sa andare oltre le semplici parole. Questo non significa imbarcarsi necessariamente in grandi attività. Possiamo partire dalla riorganizzazione interna, o da buone pratiche di ufficio o ancora dall’implementazione di regole più ecosostenibili, inclusive e rispettose. Cominciare con piccoli gesti e consolidarli nel tempo è già un segnale positivo. 

Infine, bisogna avere il coraggio di ammettere i propri errori: tentare di nasconderli sarebbe peggio. Questo perché evidenziare in prima persona dove si sbaglia è anche segno di un’auto-osservazione che implica un’attenzione particolare per il proprio percorso. 

Lo sa bene chi fa marketing. Poniamo grande attenzione a tanti dettagli ma qualcosa può sempre sfuggire o avrebbe potuto essere realizzato meglio. Capire dove si sta sbagliando, comunicarlo e perché no coinvolgere il proprio pubblico nel processo di miglioramento chiedendo consigli può aiutarci a fare bene, con umiltà e determinazione.

Un caso esemplare (di pink-washing): KFC contro il cancro al seno

Uno degli esempi più famosi di ciò che non è brand activism ci è stato fornito da KFC, catena di fast food specializzata in pollo fritto.

Nel 2010 annuncia che per ogni secchiello di pollo fritto acquistato avrebbe donato 50 centesimi a un’associazione di volontariato per la lotta contro il cancro al seno. Per l’occasione avevano prodotto anche dei secchielli rosa (e di che colore se no?) per promuovere la campagna e il risultato fu una donazione complessiva di 4 milioni di dollari. Tutto fantastico, vero? Sì, se non per due grandissimi problemi venuti a galla successivamente.

In primo luogo il Washington Post ha evidenziato come la donazione complessiva venne eseguita prima della fine effettiva della campagna. Ciò significa che il numero di secchielli acquistati non avrebbe influenzato la somma totale, ma solo i guadagni di KFC. Se questo punto era più una mossa nascosta, al limite perdonabile in virtù della bontà dell’azione nel suo complesso, il secondo problema era invece alla luce del sole. In molti hanno criticato l’operazione (in effetti non ci vuole proprio un nutrizionista per capire che pollo fritto e prevenzione di malattie gravi non vanno proprio a braccetto insieme). Tutti sappiamo infatti che il fritto non rappresenta certamente una buona base per la propria alimentazione e che va limitato. Secondo alcuni studi inoltre, è tra le cause indirette del cancro.

KFC secchiello rosa brand activism
Il secchiello rosa della campagna incriminata

La donazione quindi, pur rimanendo indiscutibilmente generosa, è passata in secondo piano rispetto alla poca bontà della campagna, diventata una dei più famosi casi di pinkwashing. 

Diverso sarebbe stato il caso in cui KFC avesse scelto di cambiare ingredienti o di proporre alternative più salutari per incentivare abitudini alimentari corrette, fare prevenzione e sostenere migliori stili di vita. Avrebbe potuto anche scegliere una strada alternativa, facendo ammenda e dichiarando che, pur proponendo un menù non caratterizzato dall’essere salutista, questa volta mangiare pollo fritto avrebbe fatto anche del bene. 

Questo è solo un esempio, tra i tanti, che permette di comprendere come senza una reale riflessione a monte, operazioni di questo genere possono portare a risultati non solo deludenti ma controproducenti. 

Come consulente marketing credo profondamente in un approccio orientato a creare valore aggiunto attraverso azioni reali che possano lasciare un segno positivo per la società, l’ambiente, gli animali non umani, i diritti ma ho anche desistito dal farlo con brand che non erano pronti. Occorre maturità, impegno, serietà, costanza.


Quanto più vogliamo impegnarci quanto più dobbiamo prima crescere come organizzazioni e come persone. 

TEDxReggioEmilia 2022: ripartire (insieme, sempre, comunque)

Ripartire TEDxReggioEmilia

Anche quest’anno ho il piacere di prendere parte attivamente nell’organizzazione dell’evento TEDxReggioEmilia, con amici, volontari e un gruppo di collaboratori sempre più grande e unito.

Il 24 settembre, al Centro Internazionale Loris Malaguzzi a Reggio Emilia, scrittrici, attiviste, ricercatrici, politiche e molti altri ospiti apriranno una finestra sul loro mondo. Tema comune: ripartire. E io mi chiedo come possiamo farlo, se non insieme?

(ri)Partiamo dagli ospiti

Le idee, che ispireranno il pubblico sul “ripartire” con questa nuova edizione del TEDxReggioEmilia, prenderanno forma dalle parole di Luciana Castellina, classe 1929, una delle donne che hanno segnato la storia del panorama politico italiano. Interverranno poi la semiologa e professore associato dell’Università di Bologna Anna Maria Lorusso e Alice Bottaro, creative director di campagne pubblicitarie globali; la corrispondente di guerra Francesca Borri, il Premio Campiello Simona Vinci, la neurologa reggiana Giovanna Zamboni, conosciuta e livello internazionale per la sua ricerca sulle malattie neurodegenerative. 

Saranno presenti nel roster anche la global leader di intelligenza artificiale Francesca Rossi, Diletta Bellotti, attivista politica contro le agromafie e Martina Comparelli attivista dei Fridays for Future. Infine, l’attore e regista Marco Paolini, campione del teatro civile, con le sue profonde, intense e graffianti riflessioni. 

Le loro voci si alterneranno sul palco di quest’evento con storie brillanti, intense, audaci ed emozionanti, che parlano in modo inclusivo e dirompente di cambiamento nelle sue varie declinazioni. 

Ripartire TEDxReggioEmilia 2022
Gli ospiti di TEDxReggioEmilia 2022

L’ABC del ripartire: accessibilità, inclusione, sostenibilità

TEDxReggioEmilia nel corso dei suoi 11 anni è cresciuto e maturato. Osservando di anno in anno limiti e problematiche, ci siamo impegnati per promuovere un evento capace di cogliere le diverse sensibilità. Perché TED è anche parlare di tutto, con tutti.

Faranno parte del team di volontari un gruppo di persone con disabilità che daranno il loro contributo nell’organizzazione dell’evento. L’evento sarà accessibile alle persone sorde grazie alla presenza di interpreti Lis. Anche Art Factory 33 parteciperà all’evento, un laboratorio di disegno e ricerca visiva che dà spazio alla creatività nata dall’incontro tra bellezza e fragilità. 

Non mancherà inoltre un manifesto sul linguaggio inclusivo che ispirerà le idee sul palco e guiderà la comunicazione dell’evento. Infine, in continuità con le precedenti edizioni, stiamo riducendo al minimo i materiali stampati, offriremo al pubblico gadget nati dall’upcycling e compensando le emissioni di CO2.

La prima edizione con un partner speciale

Menzione d’onore per un partner che ha preso per la prima volta parte all’evento. Input Idea è una realtà nel mondo della comunicazione digitale con cui collaboro da alcuni anni. 

Quest’anno ha scelto di mettere a disposizione le sue competenze, la sua passione e il suo entusiasmo per aiutare nella comunicazione dell’evento. Con un team giovane e desideroso di crescere ed esprimersi, cura la campagna e presenza social dell’evento, in collaborazione con tutto il team, dialogando con i main partner, offrendo supporto nella costruzione dei contenuti digitali e partecipando attivamente nelle fasi preparatorie.

Un gruppo in costante movimento, che non si ferma sui propri risultati e cerca ogni giorno di portare qualcosa di nuovo all’interno della loro agenzia. Che sia un aggiornamento social, una curiosità dal mondo tech, modalità di lavoro sperimentali o semplicemente qualcosa di nuovo che desiderano condividere, Input di ieri non è mai uguale a quella di oggi. 

Insieme a Input Idea, anche Mattia Cavazzoli, con cui ho il piacere di collaborare da qualche mese e che si è appassionato alla causa, mettendo impegno costante e tanta creatività nella stesura degli articoli e nel proporre nuove idee arricchendo ulteriormente tutto il gruppo.

Ripartire TEDxReggioEmilia 2022
Il pubblico del TEDxReggioEmilia 2020

Ripartire insieme quando sembra impossibile

In un mondo che tende più facilmente alla disgregazione, in cui le relazioni richiedono sforzi a cui non siamo più abituati e una presenza costante per essere coltivate, la fiducia nel concetto di gruppo spesso diminuisce. TEDxReggioEmilia invece rimane e anzi si rafforza. Forse proprio perché più che un evento, è una prova costante del “fare comunità” che ogni anno, con grande piacere, riusciamo tutti insieme a superare. 

La sua organizzazione ci mette in gioco, portandoci fuori dagli spazi chiusi delle nostre case, in un mondo in cui le cose possono accadere stando insieme. Ci poniamo obiettivi comuni, condividiamo valori che costruiscono ponti sopra cui incontrarsi, conoscersi e capirsi. Vivere TEDxReggioEmilia come volontario, così come nelle precedenti edizioni, significa apprezzare questa sua bellezza che va oltre lo slogan di “Ideas worth spreading”. Infatti prima ancora che con le idee si entra in contatto con le persone e i loro punti di vista, intrecciando vite diverse con un obiettivo comune. 

Anche se lungo il percorso possono presentarsi ostacoli, complessità e incomprensioni, chi fa parte di TEDxReggioEmilia, come per gli altri gruppi in tutto il mondo, sa promuovere l’ascolto e il rispetto. Questi aspetti sono la chiave per instaurare un dialogo capace di creare eventi unici, scintille e motori di un processo collettivo che vuole indagare la realtà senza affidarsi a narrazioni stantie, alla scoperta di nuovi orizzonti. 

Il 24 settembre ripartiamo, ancora una volta mettendo insieme tante storie, persone e idee per reinventare il mondo, almeno un po’.

La politica ai tempi di TikTok

Giovedì 1 settembre 2022. Un giorno da annotare. Perché? Forse c’entra qualcosa la missione per il ritorno sulla Luna? No, ma sempre di uno sbarco si parla. A 23 giorni dalle elezioni, le maggiori forze politiche del paese hanno aperto un profilo su TikTok. Questo momento mi permette di elaborare una breve riflessione sulla comunicazione politica sui social. Può essere TikTok il canale adatto per fare comunicazione politica? Come rimbalzano i video su altre piattaforme? Come le testate giornalistiche tradizionali riprendono l’argomento? Potremmo parlare di memificazione?

Le elezioni del 25 settembre sono alle porte e, improvvisamente, molti esponenti della politica italiana alla disperata caccia di voti per quella che si preannuncia la tornata elettorale con il maggior astensionismo della storia d’Italia, approdano su Tiktok. Ecco come i diversi leader hanno esordito.

Politici e Tiktok

Silvio Berlusconi, 85 anni suonati, noto da sempre per la sua attenzione verso le giovani, inizia a interessarsi in senso più ampio all’elettorato giovanile e si lancia con un primo video e bisogna rendere conto dell’impatto dell’iniziativa. In un giorno l’ex cavaliere ha accumulato più di 5 milioni di visualizzazioni, 28mila commenti, 100mila condivisioni, portando il profilo a raggiungere in meno di 24 ore i 300mila follower. A questi numeri bisogna aggiungere l’infinità di conversazioni, articoli, contenuti social e condivisioni su ogni altra piattaforma, da Twitter a Instagram. 

@silvio.berlusconi

Ciao ragazzi, eccomi qua. Vi do il benvenuto sul mio canale ufficiale #Tiktok per parlare dei temi che più stanno a cuore a Forza Italia e al sottoscritto e che vi riguardano da vicino: parleremo e discuteremo del vostro #futuro Vi racconterò di come vogliamo rendere l’#Italia un Paese che possa darvi nuove opportunità e la possibilità di realizzare i vostri sogni. Ci rivediamo presto su TikTok ! #silvioberlusconi #berlusconi #elezioni #forzaitalia🇮🇹💪❤️ #politica #giovani

♬ suono originale – Silvio Berlusconi

Uno dei prodotti più diffusi riguarda il paragone tra il cavaliere e un episodio specifico de “I Simpson”. Il Signor Burns, il vecchio magnate a capo della centrale nucleare della città, cerca di infiltrarsi a scuola adottando lo stile estetico e linguistico di un “giovane” con scarsi risultati. Parallelismo quanto mai azzeccato. L’esito fa accapponare la pelle anche agli osservatori meno severi e solo le urne potranno dire se questa ulteriore “discesa in campo” saprà conquistare i voti della GenZ. Il Cringe ha raggiunto vette inesplorate.

MEME

La politica ai tempi di TikTok include anche il terzo polo. Anche il leader di Italia Viva, Matteo Renzi, ci prova. Già avvezzo a forme di comunicazione meno istituzionale (come dimenticare il suo stile Fonzie ad Amici?) arriva su TikTok facendo leva sui suoi “cavalli da battaglia” quando si parla di giovani: i meme “First reaction Schock” e “Shish”. Da lui ormai ci attendiamo davvero solo il corsivio.

Il PD, attraverso Alessandro Zan, si presenta sulla piattaforma sottolineando il suo impegno nella lotta all’omotransfobia e ricordando come il centro destra abbia fatto affondare il decreto brindando e applaudendo in aula. Tema senz’altro caro alla generazione presente sul social. Risultato più che buono con un tone-of-voice che non vuole sorprendere, decisamente più low profile rispetto ad altri.

Bisogna infine anche tenere presente che altri personaggi quali Matteo Salvini, Giuseppe Conte e Giorgia Meloni possono vantare una presenza più lunga in questo spazio. Caso rilevante sono le varie dirette del leader del Carroccio, in cui risponde direttamente ai suoi utenti, ringraziandoli per le donazioni che si possono effettuare attraverso TikTok oppure approfittando di commenti negativi per rispondere con le modalità ben note a cui siamo ormai abituati.

La politica ai tempi di TikTok tra meme e finzione

In un paese in cui i Partiti tendono a trascurare il dialogo con i giovani (ricordiamo che gli elettori under 30 sono circa 10 milioni) i tentativi fino a qui osservati appaiono abbastanza ridicoli, quando non del tutto comici. 

Non a caso le prime dirette TikTok (e anche alcune campagne social) sono diventate il materiale di partenza per la creazione di diversi meme.

Il Meme è diventato il comun denominatore della comunicazione politica rivolta a questa fascia di età, volontariamente o non. Enrico Letta con il suo “Scegli” declinato in diverse salse (dai no vax alla carbonara col guanciale) e la Leader di Fratelli d’Italia con l’ormai storico remix del suo discorso “Sono Giorgia”, ballato nelle feste queer al pari di un brano Miss Keta.

Pasta politics: Italy's Letta goes viral with carbonara tweet

Così facendo, le comunicazioni social, che avrebbero il potenziale di favorire una maggiore trasparenza e vicinanza tra giovani elettori e politici, finiscono per costruire un muro, o meglio un vetro, tra queste due classi.

In tal senso l’ultimo numero di Krang, progetto editoriale di Marketing Arena che merita il nostro plauso, mi offre uno spunto di riflessione. Simone Sarasso, parlando di “limiti” introduce il concetto di vetrificazione che si sostituisce alla genuinità della trasparenza. Nella nostra società il mostrarsi a ogni costo diviene il nuovo limite, che lui stesso definisce endemico. Ne parla in tutt’altro contesto ma spero di non far torto alle intenzioni del docente del NABA, trovando un legame tra questa idea e quanto sta accadendo nell’improvvisata comunicazione digitale di molti politici: finta, distante dalla realtà, autoreferenziale. Di fronte a contenuti di questo tipo è ovvio che prevalga la diffidenza rispetto alla fiducia: un utente mediamente istruito tenderà più che riflettere sugli argomenti trattati, sul motivo per cui un politico gli sta parlando in quel modo.

A cena, parla di politica con Will_Ita 

Per fortuna la politica ai tempi di TikTok non è fatta solo dai carrieristi del potere. Voglio concludere con un esempio di tutt’altra matrice. In tutto questo “shitstorm politico”, la campagna informativa promossa da WillMedia è degna invece di una nota positiva. Con un seguito composto all’80% da Under35 questa agenzia stampa ha tutto da guadagnare fornendo al proprio pubblico contenuti in linea con i propri bisogni, nel modo più efficace possibile.

Attraverso i social propone storie e post per riflettere sulle varie proposte politiche attraverso un linguaggio che si adatta bene al target da coinvolgere. Scorrendo la pagina Instagram per esempio è possibile trovare infografiche precise e velocemente comprensibili, reel riguardanti le notizie più recenti e anche i tanto amati meme che la politica non sa spesso usare. In questo caso il contenuto non è fine a se stesso, non cerca solo di divertire: costituisce il primo contatto per andare ad approfondire l’argomento in questione.   

L’impegno della pagina svalica infine i confini digitali, promuovendo la propria campagna informativa anche con manifesti fisici sparsi per Roma e Milano in questi giorni: “La politica non piace a nessuno. No, non è con questa frase che farai un figurone a cena”. È chiaro quindi l’intento di Will di recuperare l’attenzione di chi si sente lontano dalla vita politica, promuovendo un’informazione chiara ed efficace. Che sia perché gli argomenti sono spesso oscuri o perché non ci si sente rappresentati, questa campagna invita ad interessarsi in modo genuino alla politica attraverso un approccio coinvolgente e accessibile. 

Un esempio di come, con la giusta creatività e con una certa onestà intellettuale, sia possibile utilizzare i social anche per dialogare e riflettere su argomenti complessi.

Politica, l’arte del possibile.

 

BeReal, il cambiamento dei social e la lotta per l’anti-intrattenimento

BeReal Alessio Conti

Tra proteste su e contro i social, migrazioni da una piattaforma all’altra e bisogni emergenti delle nuove generazioni, il panorama digitale sta registrando un periodo di grande trasformazione. Può BeReal essere considerata la prima risposta concreta a tutto questo?   

Tiktok e la nuova visione dei social

Volendo identificare uno degli ultimi macro cambiamenti di paradigma in ambito social bisogna sicuramente menzionare l’ascesa e il successo di Tiktok. Ormai infatti è chiaro il peso che ha avuto e sta ancora avendo nel ridefinire l’intero ecosistema delle piattaforme online. 

Uno dei meriti che vanno assegnati a questo colosso del web è di aver riconosciuto il primato del video rispetto all’immagine anche nei contenuti più semplici da realizzare e condividere. Infatti tale formato rappresentava ancora prima dell’arrivo della piattaforma cinese una crescente parte di ciò che gli utenti ricercavano online, ma che era diventata prerogativa di contenuti molto elaborati. Per esempio Youtube, ancora considerata la piattaforma video based per eccellenza, nel corso degli anni si è trasformata da “broadcast yourself” a “broadcast your company”, ospitando sempre più canali istituzionali.

Intrattenere, non socializzare

Con l’arrivo di Tiktok è stato riportato in auge una tipologia di video estremamente semplice, alla portata di tutti. A distanza di qualche anno possono essere riletti con occhio critico i primi attacchi che gli sono stati sferrati: “Una piattaforma fatta di balletti e lip-sync che chiunque riuscirebbe a realizzare”. Ciò che veniva etichettato come un demerito non era altro che il principale valore che ora ogni social rincorre, per consentire a chiunque di mostrarsi in formato video con estrema semplicità. 

Qui troviamo il grande cambiamento: Tiktok è stato il primo ambiente online a riconoscere l’importanza di trasformare chiunque in un “Intrattenitore per pochi secondi” che, sommati ai contenuti di ogni utente, favorisce una lunga permanenza sulla piattaforma stessa.

Quando un social perde l’aspetto sociale

Da qualche anno stiamo assistendo alla nascita di funzionalità Tiktok-like nelle altre piattaforme, da Youtube con l’implementazione degli Short a Instagram con i suoi Reels. Se l’apertura della prima può sembrare un ritorno alle origini, la seconda palesa un chiaro intento competitivo. Infatti nel 2016 molti erano gli articoli che descrivevano l’esodo dei più giovani da Instagram a Tiktok, storia che sembra ripetersi riguardando all’epoca in cui la prima era meta di destinazione della stessa utenza decisa ad abbandonare Facebook.

Tramite la riconfigurazione della totalità degli ambienti più popolati del web il fenomeno si è espanso, andando a modificare la stessa percezione che gli utenti hanno di queste piattaforme con Il focus che si sposta dalla relazione alla potenziale viralità. 

Nell’ultimo periodo è emerso anche  un movimento di protesta nato “per fare di Instagram di nuovo Instagram”. Gli utenti e gli stessi creator temono che questo drastico avvicinamento alle dinamiche di TikTok stia minando la natura sociale alla base di questa piattaforma. Oltre al predominio del video sull’immagine, la possibilità di essere scoperti tramite l’algoritmo renderebbe le relazioni secondarie, creando un ambiente in cui l’importante è riuscire a entrare nei consigliati. 

BeReal e il cambiamento dei social
Post di protesta via @illumitati

Nuove generazioni tra pubblico, privato e offline

Prima ancora di giungere al fenomeno di BeReal è utile osservare un’altra tendenza sempre più frequente sui social. Soprattutto tra le ultime generazioni sembra evidente come la dicotomia tra sociale e intrattenimento abbia modificato l’uso che questi ultimi fanno delle diverse piattaforme. Molto spesso infatti è possibile trovare nelle descrizioni dei profili online di questi giovani utenti link di rimando ad altre pagine di loro proprietà, spesso rese private. 

In questo modo si cerca di dividere concretamente la sfera pubblica, improntata a costituirsi come oggetto di performance, da quella privata (sui social), in cui vengono valorizzate gli aspetti sociali, riservatezza e una piccola cerchia di relazioni. Risulta interessante quindi come si possa parlare di uno sviluppo di tripartizione tra online pubblico, online privato e offline (non a caso sono sempre più i corsi e le iniziative per vivere esperienze digital detox).

BeReal e la valorizzazione del qui e ora

Il cambiamento che vede mutare i social in spazi di intrattenimento, quasi al pari dei servizi di streaming on demand, ha anche decretato la nascita di nuovi soggetti capaci di occupare il campo lasciato vuoto. È a questo punto che entra in scena BeReal, app francese di condivisione di scatti fotografici nata nel 2020. Se all’inizio dell’anno era salita agli onori della cronaca per la sua rapida ascesa tra le giovanissime generazioni, ora ci ritorna dopo essere diventata l’app più scaricata sul suolo americano, scalzando TikTok dal podio. 

Per comprendere l’importanza di questo evento bisogna chiarire i suoi principali punti di rottura con l’ambiente social mainstream. L’obiettivo di BeReal è esplicitato dal nome stesso: essere reali. La metodologia utilizzata per raggiungere tale scopo si basa su una condivisione dei post rapida e in un preciso momento segnalato dall’app stessa. Inoltre i due scatti che vanno a costituire il contenuto (uno di ciò che si sta facendo e un selfie), non possono essere ritoccati con filtri o caricati dalla galleria, ma prodotti al momento. Altra peculiarità riguarda la possibilità di fruizione dei contenuti postati dagli amici: fin quando non verrà pubblicato il proprio post non sarà possibile vedere quello degli altri.

Il paradigma proposto dall’app sembra avere incontrato grande consenso soprattutto tra gli appartenenti alla Generazione Z e Alpha. Gli utenti nativi dell’era digitale stanno iniziando a mostrarsi insofferenti alla costruzione della realtà perfetta e idealizzata proposta nei classici social. 

Aprendo l’app e osservando la sezione discovery (accessibile solo a patto di rendere visibili i propri post a chiunque) è semplice notare l’assenza di una costruzione artificiosa. 

Tra chi si immortala davanti al pc a studiare, chi a guardare la tv, chi in marcia per dirigersi da qualche parte, ciò che fa di nuovo capolino sullo schermo del telefono è la vita nella sua quotidianità.

BeReal Alessio Conti

BeReal: tra bisogni e nuove prospettive

Alezis Barryat ha fondato BeReal dopo aver lavorato alcuni anni con diversi influencer alla costruzione dei contenuti perfetti per i social. Tramite questa esperienza ha potuto concepito un luogo in cui gli utenti sono esortati a non avere il completo controllo sulla propria immagine, valorizzando l’estemporaneità dei post. Quasi come cogliendo lo Zeitgeist di una generazione, ha elaborato una possibile risposta a una problematica emersa con forza solamente negli ultimi mesi. 

In un periodo storico in cui il social lascia spazio all’intrattenimento, la soluzione di BeReal può essere interpretata come il primo passo verso nuove-passate dinamiche online che riportano in primo piano i legami tra gli utenti. Un ritorno alle piattaforme come proiezione virtuale della propria vita da mostrare e non come luoghi di performance, con il supporto di meccanismi e caratteristiche tecnologiche che mirano in questa direzione.

Fuorisalone 2022: ritornare a casa

ALCOVA - Unique Client - UMPRUM

Milano Design Week ha visto un’edizione 2022 davvero speciale. Nonostante i timori e la congiuntura internazionale che ha visto l’esclusione dal Salone del Mobile e dal Fuorisalone di aziende e visitatori di alcune aree del mondo, si può a tutti gli effetti parlare di un evento dei record con una partecipazione enorme e non poche novità.

Erano passati due anni dalla mia ultima Design Week. Nel 2020 sappiamo tutti com’è andata, mentre nel 2021 pur con un tentativo di ripartenza, le restrizioni erano ancora troppo dure per proporre un’esperienza completa e sensorialmente coinvolgente. Per questo il progetto Alkemia di Digital Detox Design è rimasto in sospeso (ma non per questo senza evoluzioni di cui spero presto di potervi parlare!).

Quest’anno ho vissuto un Fuorisalone da turista! Ho avuto l’occasione di fare visita ad amici e compagni di viaggio del mondo del design, impegnati nella presentazione dei risultati dei loro ultimi studi creativi, molti dei quali per l’iniziativa di FUORISERIE. Ho avuto il piacere di ritrovarmi con Gloria Gianatti e Alessandro Mattia di Sapiens Design, Andrea Fabiana Tosi negli spazi di Cement Design, con la stylist Laura Arduin, ritrovare  Fernando Correa Granados e vivere l’esperienza di WAW (che ho visto agli arbori), incrociare storie e talenti, oltre ovviamente fare nuove conoscenze.

Fuorisalone 2022: ritornare a casa Laura Arduin
Con la stylist Laura Arduin

Raccontare in breve cosa si è visto, sentito, provato a un evento delle dimensioni del Fuorisalone è praticamente impossibile per chi ama il design. Mille sono gli stimoli e i pensieri che le installazioni riescono ad accendere. Ecco una breve e incompleta selezione di ciò che più mi ha colpito. Ecco cosa mi ha fatto pensare “Sono tornato a casa”.

ALCOVA

Partiamo con l’evento che è riuscito maggiormente a catturarmi e accompagnarmi in un percorso esperienziale unico: Alcova. Questo luogo sospeso tra passato e futuro, in cui la vegetazione naturale si riappropria dei propri spazi ta palazzo abbandonati e strade costellate di buche, ha ripreso esistenza ospitando i suoi design tra le mura del Centro Ospedaliero Militare di Baggio. La struttura militare ha conosciuto una nuova vita attraverso un evento che ha esplorato le intersezioni tra i diversi settori del design. Contando su designer affermati e nuovi talenti è stato possibile intraprendere un percorso tra tecnologia, materia, produzione sostenibile e pratiche sociali alternative. 

E/SPACE

Non posso che iniziare citando il lavoro dei Imma Matera e Tommaso Lucarini di TIPstudio in collaborazione con Studio F al primo piano della nuova ala E/SPACE del complesso. Ho potuto conoscere personalmente questi due designer grazie a Gloria e Alessandro di Sapiens Design, entrando così più a fondo nelle loro riflessioni. La loro collezione “Disrupted Stability” si pone come una concretizzazione dei pensieri sul rapporto in continuo deterioramento tra uomo e natura. Questa relazione viene a prendere forma attraverso il legno, materiale naturale per eccellenza, e le sue lacerazioni e bruciature, frutto della violenza umana. Incorniciati da un ambiente che ricalca gli scenari post-apocalittici, accendono una riflessione sull’azione umana sullo spazio e il tempo degli oggetti. Il legno di frassino, ricavato da alberi di recuperati caduti per cause naturali, si alterna tra la sua solidità e fragilità causata da superfici corrose, strappate e bruciate.

Fuorisalone 2022: ritornare a casa TIPstudio
TIP studio e Sapiens Design

Nella stessa location il mio sguardo è stato catturato dalle forme semplici e profonde di “Teno: Sound in a New Light“, di Lumio. L’azienda produce oggetti capaci di far dialogare ultime tecnologie e con la tradizione dell’artigianato. Con Teno, un altoparlante e luce invisibile, hanno voluto stimolare più sensi possibili: tatto, vista, udito, incanalando il tutto in una scultura “rotta”. Infatti questo oggetto, realizzato dal designer Max Gunawan si ispira all’arte giapponese del kintsugi, riparando oggetti attraverso l’utilizzo dell’oro. Questo conferisce all’oggetto un valore aggiunto, nato a partire dall’imperfezione e la cicatrice. 

Teno by Lumio

Continuando con il progetto di Elisa Uberti, “Poetic Jungle”, si entra in un microcosmo particolare, lontano dalla standardizzazione con molteplici ispirazioni minerali e organiche. Il suo lavoro è una ricerca di volumi e forme emozionali.Giunta al design dei prodotti tramite l’amore per oggetti raffinati e senza tempo è chiara la sua sensibilità per la bellezza della ceramica e dell’artigianato. Propone così un equilibrio tra vincoli tecnici e libertà e spontaneità del gesto. 

Arrivando all’attico di questa nuova area infine si è potuto assistere a un attenzione particolare per i materiali tessili, un’ area dall’atmosfera intima dove musica, colori, texture e profumi interagivano regalando un’esperienza unica capace di ricordarmi molto il mood della stanza Nigredo del progetto Alkemia realizzato presso Adiacenze a Bologna Design Week 2019.

Fuorisalone 2022: ritornare a casa
Attico area E/SPACE

Ethical Fashion Initiative ha proposto “The Kârvân Journey” presentando nuovi talenti dell’Asia centrale sotto il patrocinio di due acclamati designer Cheick Diallo e Sam Baron. Questi designer hanno esposto accanto a un gruppo di artigiani i cui antenati commerciavano lungo la grande Via della Seta. Ikat uzbeki meticolosamente lavorati e ricami tagiki delicatamente realizzati dimostrano la ricca cultura della produzione tessile della regione.

Casa delle suore

Raggiungendo invece la Casa delle Suore si incontra il progetto “Unique Client”, affidato agli studenti dello Studio di Design della Moda e della Calzatura dell’UMPRUM, l’Accademia di Arti, Architettura e Design di Praga. Gli studenti hanno lavorato al progetto sotto la guida della costumista Simona Rybáková e dell’assistente dello studio Vojtěch Novotný. Dato che la moda pret-a-porter è conforme alle proporzioni fisiche “standard”,  i giovani stilisti hanno avuto il compito di assistere altri clienti con caratteristiche “non prêt-à-porter”, esigenze specifiche, desideri e aspirazioni. Le proporzioni e le qualità uniche del fisico di alcuni di questi clienti erano dovute a predisposizioni congenite, malattie gravi o lesioni. In termini di umanità, tuttavia, l'”atipicità” delle loro preferenze di abbigliamento deriva anche dal loro individualismo, dalla loro identità e dal loro stile di vita.

Fuorisalone 2022: ritornare a casa Unique client
Unique Client by UPRUM

Spostandosi al primo piano della struttura si poteva trovare il lavoro di Maximilian Marchesani: “Unproduced”. Un viaggio intimo e personale nelle paure e riflessioni del designer riguardo la salute ambientale e il suo rapporto con l’artificialità dello spazio creato dall’essere umano. Attraverso tre progetti Giovani e Stupidi, Famiglia e Matrice prendono forma l’aggiornamento dell’elemento naturale capace di evolvere in caratteristiche e funzioni in relazione con le creazioni umane. ‘Unproduced’ sogna un punto di equilibrio che cerca di tenere insieme il mondo naturale, irrimediabilmente contaminato, e il mondo artificiale, al quale non possiamo ormai pensare di rinunciare. 

Fuorisalone 2022: ritornare a casa Maximilian Marchesini
Unproduced by Maximilian Marchesani

Beni Rugs infine ha presentato “Spoken Lines”, una collaborazione con Colin King. La collezione ha esplora la tradizione della produzione di tappeti marocchini e il modo in cui si evolve insieme alle influenze del design contemporaneo. 10 tappeti che si sono allontanati dall’estetica tradizionale marocchina, continuando a esplorare i modi in cui questo mestiere antico può incontrarsi con il design globale e innescare una conversazione culturale.

BASE 

BASE polo creativo nel cuore di Tortona, ha proposta la seconda edizione di “We Will Design”. Un laboratorio sperimentale con designer da tutto il mondo per immaginare nuovi strumenti, pratiche ed esperienze come risposta alle tante contraddizioni del presente. Economia circolare, biodiversità, processi di co-progettazione, nuovi approcci all’apprendimento e dispositivi individuali sono stati i macroprogetti trattati.

In questo contesto sono state due le proposte capaci di sorpendermi. La prima “The Lighthouse” è un progetto che nasce da una domanda. “E se potessimo usare la luce dei rifiuti pubblici per coltivare cibo?”. Si compone di un bioreattore camuffato da arredo urbano che sfrutta i cianobatteri (primi microbi fotosintetici della Terra) invertendone il ciclo giorno/notte, per creare una luce flebile meno dannosa per gli animali notturni. 4F.STUDIO considera i microbi, il cibo e le comunità locali come temi centrali per guidare la propria pratica per rispondere a problemi sociali noti per creare comunità sostenibili e forme di produzione responsabili.

La seconda invece è stata Francesca Tambussi con il suo “Hyperburgers”, un supermercato innovativo interamente gestito dai consumatori. Propone uno sviluppo solidale di distribuzione del cibo alternativo alla GDO. Esempio di design sociale alla ricerca di modelli di commercio alternativi.

Fuorisalone 2022: ritornare a casa  Francesca Tambussi
Hyperburgers by Francesca Tambussi

Sanctus di Lasvit via Voghera

In occasione del Fuorisalone 2022, Lasvit ha presentato Sanctums, a cura di Maxim Velčovský, Art Director di Lasvit.Lasvit ha reso omaggio a pezzi iconici del brand come Herbarium, Midsummer, Chiper o Globe Metro e nuove collezioni di vetreria e illuminazione, realizzate in collaborazione con i migliori designer del mondo tra cui A:Live, un’installazione cinetica modulare in vetro, ideata da Stefan Mihailović, membro del team di progettazione Lasvit. A:Live, attraverso una serie di semplici movimenti, è in grado di creare composizioni di luce maestose e complesse, perfette per arredare gli spazi in modo del tutto scenografico.

Fuorisalone 2022: ritornare a casa Lasvit
Sanctus by Lasvit

Statale

Passando alla Statale di Milano sono stato colpito da Elementa, l’installazione degli amici di Ovre.Design per Cerasarda. Un chiaro rimando al rapporto tra essere umano e elementi naturali. Nel Sottoportico del Cortile d’Onore quattro strutture dai colori differenti poste l’une accanto alle altre, ognuna contenente opere in ceramica decorate con simboli di fuoco, acqua, terra e aria. L’analisi dello studio sul tema della rigenerazione si è focalizza sul rapporto con gli elementi naturali, nella consapevolezza che solo la comprensione di questi possa portare l’essere umano a rispettarli. Ciò si è tradotto in quattro ambienti fisici e i corrispondenti manufatti.

Fuorisalone 2022: ritornare a casa Ovre.Design
Elementa by Ovre.Design

Mentre all’interno del cortile ha preso vita Supercalifragilisticexpialidocious. L’installazione-esperienza a cura di Isay Weinfeld (in partnership con Portobello, Casone Group e Mapei)  trae la sua forza da una narrazione intima e personale per generare connessioni creative. Il designer racconta di sé, delle cose che gli piacciono nella vita e della sua visione del mondo. L’installazione ha l’aspetto di un’essenziale scatola in legno intonacata di nero e all’interno racchiude un mondo denso di suggestioni e richiami ad arti visive, cinema, musica, danza, teatro, letteratura e architettura, riannodando i fili di una personale narrazione. Una selezione che mi ha fortemente emozionato grazie a riferimenti comuni da Jaques Tati a “Pina” di Wim Wenders passando da John Cage e attraversando le meraviglie del cinema, dell’arte e della musica che rendono le nostre vite così ricche di simboli e orizzonti di significazione.

Supercalifragilisticexpialidocious by Isay Weinfeld

SUPERSTUDIO

SUPERDESIGN SHOW ha presentato il progetto Looking Ahead. “Guardare Lontano” in tutti i sensi, questo il tema dell’anno che coinvolge i partecipanti e invita a scoprire le tendenze dell’abitare, le soluzioni sostenibili e i cambiamenti che economia circolare, human technology e nuovi scenari, porteranno nel futuro prossimo. 

Fuorisalone 2022: ritornare a casa Sapiens studio
Monet by Sapiens design

Qui ho potuto ritrovare i pluripremiati Sapiens design, che insieme a Pollini Home, hanno realizzato Monet, serie composta da una libreria e due tavolini che si distinguono per leggerezza ed organicità delle forme e anche Claudio Volta di Doodesign con Stele, collezione realizzata insieme all’ artista Niccolò Morgan Gandolfi. Per questa collezione il lavoro di Gandolfi si caratterizza per l’utilizzo di elementi naturali, come la l’argilla, per creare un ponte fra passato e presente. Una collezione che ricevuto notevole successo e attenzione sia dal pubblico che dagli addetti al settore.

Fuorisalone 2022: ritornare a casa Doodesign
Stele by Doodesign

Via Solferino

Avvicinandosi alla fine di questo percorso in via Solferino, negli stessi spazi dove qualche hanno fa prendeva vita la Living Experience, è andato in scena W_A_W collection. L’esperienza di Be Vibes si incentrava sull’interazione tra mondo botanico e musicale, in cui il corpo umano diventa chiave di volta chiudendo un circuito con il proprio tocco che dava vita a composizioni attraverso l’esperienza tattile delle piante in un ambiente totalmente illuminato dalle onde sempre diverse e policromatiche delle lampade create dall’architetto e designer, Fernando Correa Granados.

Fuorisalone 2022: ritornare a casa W_A_W Collection
Be Vibes by W_A_W Collection

Fuorisalone 2022

Questa è solo una minima parte della quantità di suggestioni che la settimana del Fuorisalone è riuscita a regalarmi. Lasciarsi ispirare, espandere le proprie visioni, ottenere spunti da cui partire, rappresentano la vera essenza di un evento capace di far comprendere come il progettare allarghi i propri confini ai modi di vivere il sociale, l’ambiente e la bellezza.