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Hate speech: come difenderci dall’odio su Internet?

Hate speech: come difenderci dall’odio su Internet?

Il 19 e 20 giugno scorso il Palacongressi di Rimini ha ospitato la terza edizione del Web Marketing Festival in cui si è parlato tra l’altro di hate speech.

Il Palacongressi di Rimini, la più grande struttura congressuale di Italia, è stato progettato e realizzato all’insegna del rispetto dell’ambiente, dell’innovazione tecnologica e della flessibilità d’utilizzo dall’architetto Volkwin Marg dello Studio GMP di Amburgo. Per due giorni è stato il luogo in cui social media manager, web developer, SEO expert, marketing manager, copywriter, graphic designer e blogger da tutto lo stivale si sono incontrati per fare networking e seguire speech e workshop tenuti da 120 relatori.

Potrei parlare a lungo di questa esperienza, degli spunti, gli approfondimenti e i momenti di formazione e incontro e può darsi lo farò in un prossimo post o su blog aziendali che curo.

PalaCongressi Rimini

In questo articolo preferisco riportare alcune riflessioni invece che riguardano noi tutti e non solo gli addetti ai lavori. Ha fatto scalpore qualche giorno fa Umberto Eco affermando che i social network “hanno dato diritto di parola a legioni di imbecilli” e che il dramma di Internet è aver promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità. Ora. Non entrerò anche io nel flusso della polemica prima di tutto perché c’è chi l’ha già fatto e in un modo che personalmente trovo molto pertinente (mi riferisco al post di Arturo di Corinto).

Ciò che forse molti non sanno è che la boutade del celebre semiologo se fosse comparsa in una discussione on-line, su di un blog o Facebook potrebbe essere etichettata come un’attività di “trolling”.

Il troll è un soggetto che interagisce con gli altri tramite messaggi provocatori, irritanti, fuori tema o semplicemente senza senso, con l’obiettivo di disturbare la comunicazione e fomentare gli animi. (wikipedia)

È qualcuno che ama infastidire per provocare reazioni, commenti e disturbare la conversazione. Agisce secondo una strategia specifica, postando un messaggio e poi osservando quello che accade, intervenendo poi solo marginalmente per infiammare nuovamente la discussione.

Esempi di trolling reali e dai risultati decisamente più nefasti sono stati riportati proprio durante un talk dal titolo Hate speech online tra bufale, razzismo e libertà di espressione cui hanno partecipato il giovanissimo giornalista Brahim Maarad, Sara Cerretelli di COSPE e Davide Bennato, docente di sociologia dei media digitali dell’Università di Catania, moderati dal giornalista Roberto Bonzio, autore del progetto “Italiani di forntiera”. I relatori hanno infatti trattato del tema dell’hate speech digitale, un fenomeno cui guardare con attenzione e che dobbiamo conoscere bene per non cadere in certi tranelli.

Negli ultimi tempi uno dei campi in cui l’hate speech trova il suo terreno preferito di azione è quello del razzismo. Frasi xenofobe e atti di intolleranza infatti generano “rumore”, vengono facilmente commentate (positivamente o negativamente), si propagano rapidamente rimbalzando da un network all’altro, acquisendo grande visibilità. A differenza del Troll, l’Hater comunica direttamente allo “stomaco”, provocando reazioni a catena, senza uno scopo preciso ma solo diffondendo messaggi violenti.

Come fare per difendersi da questi messaggi? Come riconoscerli? Quando devono essere bannati?
Dove termina la libertà di espressione e comincia il reato (riconosciuto dalla giurisprudenza statunitense) di incitamento all’odio?

Per trovare delle risposte adeguate probabilmente dovremo superare certe categorie logiche usate in passato. Concetti di libertà di espressione, censura, moderazione potrebbero infatti non essere sufficienti. Quello che occorre è una educazione digitale che permetta di possedere gli strumenti per affrontare queste nuove criticità e limitare l’hate speech.

Internet è un mezzo meraviglioso ma c’è chi legge “IL LERCIO” pensando che tratti di fatti veri o chi riposta notizie sulla morte di attori e cantanti senza verificarne la fonte! Dobbiamo uscire da questa fase ingenua che tanto ricorda gli esperimenti radiofonici di Orson Welles per poter approfittare della rete senza risultare vittime, e talvolta complici inconsapevoli, di certi fenomeni.

filter-bubbles

Ecco alcuni meccanismi che rinforzano proprio questi atteggiamenti:

  1. Filter Bubble: i motori di ricerca e lo stream dei nostri canali social tendono a fornirci informazioni per compiacerci, pertanto in linea con quanto normalmente leggiamo, pubblichiamo e condividiamo. Il risultato è quello di pensare che il resto del mondo la pensi come noi
  2. Omofilia: tendiamo a creare contatti con persone simili a noi
  3. Effetto spirale del silenzio: il soggetto venendo in contatto con contenuti razzisti si sente legittimato ad esprimere odio

Se i valori di intolleranza vengono veicolati dal troll, è l’hater che si sente parte di un gruppo con cui condivide quei valori. Se il livello di legittimazione è molto elevato le persone dal mondo digitale si spostano al mondo fisico arrivando a compiere violenze ed omicidi (l’ultimo triste esempio è proprio la strage di Charleston).

Come possiamo fare per contrastare l’hate speech?

Per intervenire sul troll, consiglia Davide Bennato, basta far capire che l’intolleranza non è la norma.
L’hater invece ha bisogno di essere rimosso dalla sua community. L’hater infatti necessita di sentirsi parte di un gruppo e può rivedere le proprie posizioni pur di continuare a farne parte. In caso di cyber harrassment, quindi di messaggi di odio, false affermazioni e stalking su gruppi o individui può essere una buona pratica minacciare la denuncia alle autorità.

In senso costruttivo invece possiamo:

  1. Individuare circoli virtuosi
  2. Comunicare mantenendo livelli di educazione e civiltà
  3. Essere chiari nello scrivere
  4. Fornire regole di partecipazione a gruppi
  5. Non fornire appigli per potenziali manifestazioni razziste

Rispetto a quest’ultimo punto alcuni politici giocano di sponda. Essi infatti non scrivono “Uccidiamoli!” ma per così dire propongono domande che istigano alla violenza. Ad esempio “Cosa fareste voi ad un Rom che vi porta via il figlio?”. Generalmente le persone non si assicureranno della fonte di questa informazione (per la cronaca in tanti anni è stato segnalato un caso di questo tipo peraltro molto controverso a fronte di una diffusa credenza popolare) ma si accaniranno a commentare nei modi più degradanti.

Stiamo infine attenti alla violenza che può scaturire dall’antirazzismo (si leggono commenti estremamente aggressivi anche da parte dei fautori della pace e dell’integrazione) e prestiamo attenzione a non dare l’assist alla violenza e a fenomeni di hate speech.

Un esempio di post apparentemente progressista è questo:

In realtà il messaggio contiene una serie di imprecisioni e pregiudizi tale da scatenare una serie interminabile di reazioni più o meno deliranti in cui sedicenti predicatori sostenevano bizzarre teorie complottiste, infarcite con citazioni bibliche e con riferimenti a milioni di embrioni surgelati riservati a coppie gay. Senza entrare nel merito della questione, dal punto di vista comunicativo l’interazione evidentemente non poteva funzionare.

Stiamo quindi attenti a quello che leggiamo e postiamo. A volte non commentare è il modo migliore per far cadere nel vuoto una notizia e non alimentare l’hate speech.

Non permettiamo ad Eco di avere il 100% della ragione.

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