Nell’età dell’intelletto è il pensiero critico, attraverso la scrittura, a stabilire le regole del gioco, a creare forme di potere, di sapere e di socialità. Con le tecnologie digitali e la diffusione un nuovo modello di comunicazione si sta imponendo. Cosa accade quando alla sequenzialità della scrittura succede la simultaneità dell’immagine? Vincerà l’intelletto o la demenza digitale?
Intelletto o demenza digitale? Da almeno cinquant’anni il dibattito in merito al rapporto tra uomo e computer è divenuto di dominio pubblico e si accende tra chi sostiene che l’IA (sulla quale trovi alcune mie riflessioni qui) permetterà di estendere le facoltà cognitive umane e chi vede invece il rischio di una diminuzione di queste. La fantascienza ci ha mostrato futuri meccanizzati in cui faremo l’amore con le macchine come nel celebre film di Woody Allen e altri in cui i robot domineranno il pianeta. Mentre immaginavamo un futuro ce ne siamo trovati un altro.
“Non c’è più il futuro di una volta!”
Il nostro è un futuro presente con cui dobbiamo fare i conti, soprattutto se lavoriamo nell’ambito della comunicazione. Condivido a tal fine alcune riflessioni in libertà su certi aspetti del rapporto tra mente e macchina che producono effetti non trascurabili.
Ai tempi di Diderot: l’età dell’intelletto
Facciamo un passo indietro, all’epoca dei lumi. Potremmo in realtà cercare molto più addietro e ripercorrere i passaggi che hanno condotto l’uomo nella storia passando dalla scrittura alfabetica a partire dal Fedro di Platone analizzando nel dettaglio i diversi momenti storici e la correlazione tra tecnologie e pratiche sociali. Per chi intende approfondire suggerisco la lettura di Nicholas Carr.
Torniamo invece al Settecento, nel momento in cui in Occidente si sviluppa una forma di pensiero specifica, la critica, che diviene il modo di pensare alla politica, alla scienza e di immaginare una particolare tipologia umana organizzata attorno a nuovi processi di comunicazione.
Grazie alla diffusione della stampa e a un pubblico sempre più ampio, la scrittura alfabetica che da quasi due millenni aveva prodotto cultura, filosofia e sapere tecnico si propaga sempre più nella società. Si cominciano a produrre libri, riviste, pamphlet e, accanto alle opere classiche, iniziano a diffondersi nuove narrazioni spesso oggetto di aspre polemiche. I sistemi di produzione pervadono ogni territorio, anche quello del sapere che viene veicolato attraverso una tecnologia per sua natura sequenziale, che richiede un certo sforzo cognitivo e un certo grado di concentrazione.
Nell’età dell’intelletto è dunque il pensiero critico, attraverso la scrittura, a stabilire le regole del gioco, a creare forme di potere, di sapere e di socialità. La scrittura controlla, verifica, impone dei tempi così come la lettura. Io stesso in questo momento, nel cercare di organizzare i miei pensieri, sono costretto a un lavoro supplementare rispetto a quello del parlare.
Scrivere o leggere non sono capacità innate dell’uomo, ma pratiche da acquisire e nutrire, atti consapevoli; ma cosa accade se una tecnologia, Internet, permette di passare informazioni in modo diverso, più rapido, più fruibile. Cosa accade quando alla sequenzialità della scrittura succede la simultaneità dell’immagine?
Secondo McLuhan citato da Franco Berardi “Bifo” in questo intervento, e come già riportato in questo post sulla cosiddetta nuova normalità, tale cambiamento determina la fine della fase critica e l’inizio di una nuova fase mitologica. Nel mito non vigono le regole del discorso, non vi sono bias cognitive: tutto ciò che è mito non è sottoposto a vincoli logici. Tutto è possibile e al contempo impossibile: è la fine del principio di non contraddizione che da Socrate in poi è stato alla base del pensiero in Occidente.
Tempo macchina e tempo umano
Nella Zettabyte Era, le informazioni vengono generate e veicolate a una velocità tale da sfuggire alla nostra capacità di interpretarle. Il mosaico che ai nostri occhi si compone è confuso e senza possibilità altra rispetto a questa. È il passaggio dall’età dell’intelletto all’età della demenza secondo Zbigniew Brzezinski, plasmata dalla tecnologia elettronica. Secondo questi autori il mondo dell’informazione genera un flusso tale di dati da non permettere alle nostre coscienze di filtrare, introiettare, correggere, memorizzare (fondamentalmente capire) quello che accade. È la tempesta di merda, l’era della post-verità, in cui si perde il punto di equilibrio tra numero di informazioni e tempo necessario per comprenderle.
Questa rivoluzione implica un’uscita dal tempo umano perché il problema di comprendere la realtà e rispondere in modo creativo alle sfide che questa pone non è delle macchine ma dell’uomo.
Il volume di dati prodotti e condivisi in rete sta esplodendo. Nel biennio 2015-2016 sono stati creati più dati che nell’intera storia dell’umanità. Nel 2017 questa soglia è stata superata nel mese di luglio. L’incremento è in continua accelerazione.
Secondo una proiezione nel 2020 il volume di dati avrebbe raggiunto i 47 Zettabytes (circa 47 miliardi di Terabytes). I dati effettivi dello scorso anno ci dicono che ne sono stati prodotti 58.
Come ci ricorda Luciano Floridi, la mente umana non può cogliere uno sviluppo tanto rapido. Il tempo per acquisire informazioni di un normale smartphone e quello della mente umana sono molto diversi. In un certo senso nella macchina semplicemente il tempo non esiste e un file è sempre uguale a sé stesso ogni volta che viene spostato da una cartella a un’altra. Questo non accade per la nostra memoria. La nostra memoria muta, si evolve, rievoca ogni volta sfumature diverse, rielabora continuamente i ricordi stimolano emozioni e intuizioni, interpretando e reinterpretando quanto vissuto, studiato, fatto. Per noi umani, consapevoli della nostra morte, il tempo è informativo. In ogni sistema biologico il tempo fa informazione e noi necessitiamo di tempo per capire il mondo, per coglierne le differenze, per elaborare idee, progettare nuove forme di vita. Ci vuole tempo per sviluppare un pensiero, per lasciarlo sedimentare, per far sì che la corteccia cerebrale si riorganizzi a ogni nuovo stimolo, a ogni nuova informazione.
Un film in fast forward
Quando le informazioni ci raggiungono troppo velocemente non è più possibile per noi leggerle. Bifo Berardi a tal proposito propone un’analogia con i fotogrammi di un film. Se questi iniziassero ad accelerare si arriverebbe a un momento in cui non saremmo più in grado di vedere il film stesso.
È, molto verosimilmente, quello che sta accadendo oggi. Gli accadimenti, le notizie, i meme, le Breaking news, le notifiche, le stories di Instagram: tutto si confonde in un immenso universo in espansione privo di centro. Si viene così a determinare una situazione di incertezza e di indecidibilità, di “Out of control”. Non a caso la comunicazione commerciale, politica e sociale oggi non si rivolge certo al nostro pensiero critico, ormai atrofizzato e indifferente agli stimoli, quanto a scenari mitologici e più o meno grotteschi. Ne è riprova il ruolo del Parlamento, ormai esautorato totalmente delle sue funzioni dialettiche e il prevalere di leadership che puntano al carisma, a messaggi semplici e ripetitivi, “State a casa” o “Prima gli italiani” che siano.
Al momento è difficile immaginare cosa ciò produrrà. Siamo infatti privi di quella prospettiva necessaria a inquadrare la situazione nella sua complessità. In questi anni abbiamo vissuto e stiamo vivendo diversi cigni neri e abbiamo capito che i mutamenti sono molto rapidi e spesso imprevedibili.
Per ora vedo rischi e opportunità ma non so dare loro un nome. Sento la necessità di un cambiamento che non trova risposta, a partire dai temi ambientali fino a quelli sociali, che di fatto portano un minimo comune denominatore ingombrante, onnipervasivo, inadatto e insostenibile a cui attualmente non sappiamo proporre alternative realizzabili.
Verso un pensiero cyborg: una nuova era per l’intelletto?
Certo è che un pensiero che si elabora in collaborazione con le macchine è davvero un pensiero cyborg, l’attuazione di una chimera che sta portando l’uomo su nuove strade. La cibernetica fa parte ormai della nostra vita più intima e privata, in quanto interiorizzata in meccanismi di osservazione e produzione di realtà.
Anche i dispositivi di potere stanno cambiando e le istituzioni politiche impallidiscono di fronte a Google o ad Amazon. Il globale è, per sua natura, sovranazionale mentre ogni altra entità sub-globale non può che accettare la propria impotenza rispetto a processi automatici e autopoietici di reiterazione e diffusione indipendente dalla volontà umana.
L’unità mistica uomo-macchina proposta da Kevin Kelly ci porta in un mondo inesplorato, che ha radici antiche, nel rapporto tra l’uomo e la tecnologia, un rapporto ambivalente. Se da un lato infatti la tecnologia appare autonoma rispetto all’uomo non dobbiamo dimenticarci che è da esso creata e che per certi aspetti nulla esprime meglio l’essenza umana della tecnologia stessa, come sostiene ad esempio Don Peyron, e questo almeno dal controllo del fuoco in poi. Il punto forse è proprio questo: il controllo.
Il ruolo delle ICT’s nell’era dell’Iperstoria
Nell’iperstoria le Information and Communication Technologies acquisiscono un nuovo status: da mezzi per la trasmissione del sapere a condizioni fondamentali per nostra esistenza.
Ciò implica una perdita di controllo da parte dell’uomo. L’automazione infatti permette di migliorare le nostre condizioni di vita delegando attività ripetitive a macchine e algoritmi. Nella realtà infosferica un essere umano, prima eliminato dal centro dell’universo, poi dai progetti divini è stato infine estromesso anche dal primato assoluto di essere intelligente e oggi tenta di ritrovare una sua collocazione nel mondo.
Potremmo ancora vivere, pensare, lavorare, agire senza una connessione Wi-Fi o un pc? Cosa accade quando il mondo iperconnesso pare sommergerci di spazzatura e il pensiero come lo avevamo conosciuto, con la sua capacità di progettare e di realizzare strutture economiche, sociali e scientifiche si frantuma in una miriade di informazioni sparse? Mi chiedo a volte come avrebbero potuto lavorare alcuni grandi maestri d’arte e scienziati se fossero stati continuamente distratti da notifiche, mail e se avessero dovuto parallelamente alla produzione, occuparsi della comunicazione. Immaginiamo Michelangelo che posta frammenti della Cappella Sistina per una bella campagna teaser o che crea un evento Facebook dovendo rispondere a chiunque commenti. Ridicolo. Certamente ridicolo ma mi chiedo come possiamo pensare di lavorare bene e di avanzare ulteriormente in queste condizioni, in questo mondo.
Un mondo deprivato di quel futuro che positivisti, comunisti, democratici, dittatori, illuministi, preti e idealisti ci avevano proposto in vari modi. Un mondo dunque incapace di ripensare al futuro, dimentico del passato e in questo periodo deprivato anche del suo presente, sospeso nella paura micidiale che un nuovo virus ha saputo generare; un mondo che tra utopie e distopie, sembra sempre più dominato da meccanismi neoliberisti in cui potenzialmente possiamo fare tutto ma che in realtà limita fortemente le nostre capacità espressive, sempre condizionate da media di cui non abbiamo controllo. Possiamo dire tutto: non a condizione che abbia senso, ma solo a condizione che si rispettino le policy delle piattaforme. Non ha alcuna importanza il valore effettivo del messaggio quanto la sua capacità di creare valore di impresa per Facebook, Linkedin e via dicendo che, in ultima istanza, è capacità di attirare investitori e advertising.
Tra i due litiganti vincerà la demenza digitale?
Dalla lotta novecentesca tra televisione e telefono di cui ci parla Bifo, tra un dispositivo broadcasting verticale e un altro di point-to-point casting, “flat”, democratico è emerso un modello di rete, il network, che ha cambiato il mondo per sempre, che fonde elementi del primo e del secondo in una tecnologia che permette a chiunque di trasmettere a chiunque. Sappiamo tuttavia che aver pari opportunità non significa poi nei fatti avere le medesime possibilità ma, dal punto di vista tecnologico, possiamo assumere questa caratteristica a livello di verità. Dunque la domanda è: Internet ci rende tutti uguali?
E in che senso? Realizza pienamente il progetto democratico offrendo a tutti gli stessi diritti oppure livella verso il basso la nostra capacità di comunicare appiattendoci su forme stereotipate di comunicazione di cui gli emoji ne rappresentano per eccellenza il simbolo? Immediati e solo apparentemente privi di ambiguità, questi moderni ideogrammi sintetizzano emozioni complesse in pochi tratti. Ma cosa significa davvero una faccina sorridente quando rispondiamo a un messaggio? “Che carino, grazie!”, oppure “Ah sì, ok”?
Cosa stiamo davvero comunicando con queste icone divenute addirittura sistema di valutazione in alcune istituti della scuola primaria? Quale sotto-testo posso veicolare? A quali ulteriori mirabolanti riflessioni possono condurci?
Perché non ho fatto un video?
Rileggo questo post. Ho appena scritto qualcosa di davvero poco adatto al mezzo, incurante di ogni più basilare regola di web copy e di SEO. Questo aspetto mi fa riflettere: per la prima volta nella storia chi scrive si deve preoccupare di piacere non solo al pubblico ma anche ad algoritmi. Come se un giornalista del secolo scorso avesse dovuto preoccuparsi di assecondare la propria macchina da scrivere o uno scrittore il proprio taccuino: piacere, e piacere subito, spesso rinunciando all’approfondimento a vantaggio di una immediatezza che è inesorabilmente correlata a questa tecnologia, pare essere la legge dominante.
Per dire quanto ho detto avrei dovuto preferire un podcast o un bel video, con meno parole e senza digressioni. Ma ciò mi fa sorgere una domanda: quanto stiamo inesorabilmente optando per meme e video di 30” rispetto a testi più articolati? E se tutto ciò nel lungo periodo mettesse a rischio la nostra stessa capacità di riflessione? Stiamo forse prendendo una strada che dall’epoca della ragione ci conduce all’epoca della demenza?
Intelletto o demenza digitale quindi?
Può sembrare solo una provocazione. Nessuno sceglierebbe consapevolmente la demenza.
Eppure propongo di porci questo dubbio di tanto in tanto e di chiederci come usiamo le tecnologie dell’informazione nel nostro quotidiano: cosa ne vogliamo fare e una volta abbandonata, forse anche finalmente la critica, quali forme di pensiero, umano o meno, prevarranno e quali realtà saranno in grado di generare.