9 marzo 2020: inizia il lockdown in Italia. Da allora il tempo che abbiamo trascorso su pc e cellulari si è dilatato provocando diverse reazioni. In questo articolo, senza velleità di completezza o di illuminazione, propongo alcuni pensieri sparsi per prossime e future riflessioni.
Alcune sere prima a Reggio Emilia, come in altre zone rosse, era già scattata la chiusura (mi pare fosse la sera del 7). Ricordo quel momento in cui improvvisamente, in una pausa tra un primo e secondo tempo di un film ci ritrovammo prigionieri in casa. Ero sul divano con il mio compagno. Mi voltai. Eravamo scioccati: i nostri sguardi di colpo erano mutati. Era cominciata la prima pandemia nell’era digitale.
Sono passati diversi mesi da quel momento e abbiamo tutti vissuto mille emozioni e pensieri contrastanti, tra timori, appelli alla responsabilità, misure talvolta discutibili, proclami, decreti, fasi 1-2-3, notizie contraddittorie, slanci emozionali, crisi economica, interminabili video chiamate, conteggio dei morti, numeri impazziti, neo-ecologisti, smart working forzato, teorie complottiste, opinioni di virologi, maghi e tuttologi.
Anche io come tutti noi ho avuto modo di leggere, documentarmi e ripensare alla mia vita, alla società, alla politica. Nel fare questo sono state di grande aiuto alcuni studi di filosofi del passato e del presente, i corsi all’Università e le conversazioni con amici medici e ricercatori.
Voglio qui condividere alcune riflessioni in relazione al ruolo del digitale nell’epoca della pandemia del nuovo coronavirus. Chiaramente non mi pongo l’obiettivo di spiegare o interpretare in modo sistematico cosa stia accadendo né tantomeno di tracciare un possibile percorso di uscita. Lo scopo di questo post è solo quello di porre attenzione su alcuni temi che mi auspico possano essere utili al fine di un dibattito sull’uso del digitale all’interno di contesti di crisi.
Uomini senza gregge
In quanto esseri umani necessitiamo del gruppo. Senza gregge moriamo. Milioni di anni di evoluzione ci hanno portato a sviluppare anche a livello biologico e organico una serie di capacità assolutamente necessarie alla nostra sopravvivenza. Dall’apparato fonatorio alla struttura celebrale, dai muscoli facciali alla capacità di gesticolare tutto è “pensato” per un animale incapace di vivere altrimenti. Siamo talmente umani che se privati di contatti deperiamo fisicamente e psichicamente. Da bambini non possiamo fare a meno degli altri e anche in età adulta, tranne rarissimi casi che possiamo confinare quali eccezioni, non ci è pensabile a un’auto-sufficenza economica, emotiva, psicologica. Solo bestie e Dei possono vivere fuori da una comunità secondo Aristotele. Eppure in caso di epidemie come quella che stiamo vivendo questo principio entra in conflitto con la necessità di arginare la diffusione del virus. Per una volta essere tutti insieme potrebbe risultare uno svantaggio più che un vantaggio. Come possiamo risolvere questa contraddizione?
Oriente-Occidente: un cambio di paradigma?
Una malattia arrivata dall’Oriente e che nell’Oriente ha trovato le soluzioni poi applicate a tutto il mondo. La cultura occidentale ha perso il suo primato nell’offrire risposte comuni. Migliaia di anni di cultura liberale sembrano dissolti lasciando residui in piccoli gruppi che, tuttavia, non riescono a fare breccia nell’opinione pubblica, in parte per il terrore generalizzato e globale, in parte a causa delle fallacie intrinseche a certe improbabili argomentazioni. Insieme all’accettazione di misure eccezionali per i nostri sistemi di valore, stiamo facendo nostra anche un’estetica del distanziamento e dell’urbanizzazione tipica del sol levante. La pandemia nell’era digitale ha trovato nella Cina e nell’Estremo Oriente un modello di riferimento universale. Mascherine, biciclette, monopattini e modi stessi della relazione stanno mutando il nostro modo di guardare il mondo ogni giorno, non senza conflitti e paradossi, ma in modo a mio avviso molto rapido.
Pandemia nell’era digitale: un mondo a tutto schermo?
Il digitale ha rappresentato la condizione di necessità per realizzare un lock down come lo abbiamo conosciuto. Senza tecnologie che permettono di comunicare, lavorare, offrire servizi di ogni genere, non sarebbe infatti stato possibile chiudere in casa per due mesi milioni di persone. Tra VPN, smart working, e-commerce, Skype, Zoom e Whatsapp questi mesi sono trascorsi per molti di noi davanti a uno schermo e non ci è voluto molto per accorgerci delle potenzialità e dei limiti di una comunicazione mediata. Già il fatto di non guardarci negli occhi (per vedere l’interlocutore siamo costretti a fissare il monitor) provoca un senso di forte straniamento. Mancano poi tutti quegli elementi extra-verbali fortemente informativi. Le difficoltà di interpretare parole e gesti si sovrapponevano a quelle di connessioni a volte instabili. Distrazioni continue tra notifiche e aggiornamenti hanno reso spesso un inferno certe riunioni e anche i party on line si sono presto rivelati per ciò che erano: tristi feticci di socialità.
Diritto al digitale / Diritto all’analogico
Ci penserà poi il computer. Così si intitolava un album de “I Nomadi” che girava per casa quando ero bambino. E davvero i computer ormai pensano per noi. Algoritmi sempre più complessi possono predire e orientare le nostre scelte, Google Lens permette di riconoscere oggetti e di acquistarli senza nemmeno sapere cosa siano, addirittura, come spiegava qualche giorno fa Riccardo Luna su Repubblica, di risolvere equazioni e problemi matematici. Tra un po’ si prenderanno anche la Settimana enigmistica e addio parole crociate.
In questo mondo digitalizzato, sempre più frammentario e sempre più uguale in ogni luogo al contempo, il tempo muta il suo senso. Tutto è sempre disponibile e destinato all’oblio, sopraffatto dall’ennesima novità, da un’ulteriore upgrade.
Come affermavo poc’anzi senza un supporto tecnologico tanto pervasivo e potente non sarebbe stato possibile realizzare il più grande esperimento di massa della storia. Dico questo senza alcuna vena polemica. Prendo atto semplicemente di vivere una situazione inedita. Non che siano mancate pestilenze ed epidemie di ogni genere ma le condizioni storico-sociali, tecnologiche, lo stato di avanzamento della ricerca medica, il contesto politico erano totalmente diversi.
Oggi possiamo fare tutto, o quasi, on line. Il punto per me è quindi quello di capire quanto questa sia data come possibilità o come obbligo. Il diritto, sacrosanto, a una società “smart” non dovrebbe mutarsi nella dittatura del digitale. La pandemia nell’era digitale rischia infatti di travolgere milioni di persone, per indole, età, confidenza con il pc, formazione o per scelta sono tagliate fuori da una storia che pare inevitabile ma che invece è tutta ancora da scrivere.