Una selezione delle migliori idee che mi porto a casa per “ripartire” con TEDxReggioEmilia. Un racconto incompleto e parziale che non intende essere un resoconto della giornata (troppe sarebbero le cose da dire) ma mettere in luce cosa significhi essere volontario e portare alcune delle riflessioni dei migliori talk.
Avere la possibilità di vivere lo spettacolo dietro le quinte, conoscere l’impegno e la fatica di un team di persone che mettono a disposizione le loro competenze per la realizzazione di questa giornata, emozionarsi, fare squadra: vivere un evento TEDxReggioEmilia permette di fare un’esperienza che mette in gioco tanti saperi e tante capacità.Una ricetta che ogni volta si rinnova ma che non cambia nei suoi 4 ingredienti tutti ugualmente importanti: gli speaker, i volontari, i partner e il pubblico.
Come ho raccontato in precedenza, questi elementi sono la forza di TEDxReggioEmilia, un evento capace di far dialogare esperienze e prospettive diverse per diffondere idee e ispirare le nostre menti. Non mi riferisco unicamente ai talk che si sono susseguiti durante la giornata ma anche a tutto ciò che avviene all’interno del team, le ore spese a cercare le parole più adatte, a confrontarci sugli aspetti logistici, di comunicazione, sui gadget, i rapporti con la stampa. Scintille, lampi, abbagli, bagliori, errori, idee brillanti che portano a costruire un progetto sempre diverso, vivo e procreativo.
Uno scambio di energie e idee che coinvolge anche i partner che intuiscono e abbracciano la filosofia TED divenendo parte attiva nel processo organizzativo. Senza di loro TEDxReggioEmilia non sarebbe stato lo stesso. Con loro ci siamo incontrati venerdì sera, in un evento dedicato a conoscerci meglio e dove è stato possibile interagire con i veri protagonisti, i relatori, che anche quest’anno, hanno saputo portare luce su aspetti bui, speranza laddove un presente dispotico pare averne cancellato la presenza, fotografie di mondi negati, invenzioni che mirano a migliorare la vita di milioni di persone nel mondo.
Una diffusione di idee che ha voluto abbattere tante barriere. L’evento è stato realizzato anche grazie al supporto di volontari e volontarie con disabilità, alle parole scritte dei membri di ragazzi “Indomiti – Il Giardino del Baobab” e ai gesti dei traduttori LIS (lingua italiana dei segni).
Ripartire. Sì ma da quando? Da cosa?
Questa la domanda che ci siamo posti e che Marco Paolini ha ripreso per il suo intervento. Dalla rivoluzione agricola? Dal dopoguerra? Dal crollo dell’Impero romano? Da oggi? Non siamo di fronte alla prima guerra, al primo olocausto o alla prima epidemia e nemmeno ai primi catastrofici effetti dell’azione umana sull’ambiente. Eppure oggi abbiamo un’opportunità in più per interrogarci sul segno che intendiamo lasciare nel tempo che ci rimane. Ne hanno parlato 11 persone, 11 voci, 11 universi collegati dal tema della ripartenza.
Cure all’infodemia, sedie a rotelle speciali, giovani e politica, “No” creativi, ricerca clinica sull’Alzheimer, emergenze climatiche: questi sono alcuni dei temi affrontati dagli speaker.
Tutti interessanti e tutti meritevoli di essere visti e ascoltati. In questo mio personale e parziale racconto ne scelgo tre. Tre interventi che hanno lasciato un segno, che sento il bisogno di riportare, di mettere nero su bianco. Riflessioni presenti in me e che attraverso di loro hanno potuto trovare la forma di espressione più efficace.
Da un racconto migliore
“Quando mi hanno invitato per parlare di ripartenza non ho pensato al Covid. Vivo in Paesi in cui il virus è un lusso”. Con queste parole si presenta Francesca Borri, giornalista di guerra in Medio Oriente e non solo. Ha viaggiato e raccontato attraverso i suoi testi e le sue fotografie tanti conflitti dall’Afghanistan all’Egitto passando dalla Palestina e dall’Ucraina. Ho avuto il piacere di conoscerla venerdì, all’evento organizzato da Smeg, e mi ha da subito colpito. Il giorno dopo mi ha commosso. Nulla mi fa tremare come la verità.
Attraverso i suoi minuti sul palco ha espresso la contrarietà a un modo di fare giornalistico Occidente-centrico che vorrebbe ci fosse sempre una sola verità senza tenere conto della complessità del reale, ignorando l’alternarsi di ruoli tra carnefici e vittime.
Lei è una davvero tosta. Lo sguardo è fermo, le emozioni misurate e per questo colpiscono ancora di più. Non vuole sorprendere, non vuole intrattenere, non vuole elogiare il suo lavoro. Ti dice quello che vede, che vive sulla pelle. Sì, perché lei il giornalismo lo vive, non lo fa. È una che quando tutti cercano di fuggire da Kabul, ci va a vivere, che non accetta narrazioni edulcorate, che è capace di criticare le Istituzioni, che può intervistare un dittatore come un profugo. I suoi modi e le sue parole mi hanno ricordato la visione e l’impegno di Tiziano Terzani o di Oriana Fallaci (almeno di una parte del suo lavoro).
Raccontare il conflitto come un “noi contro loro” costruisce una visione limitata della situazione che non si apre oltre al fronte armato. Per capire la crescente emergenza afgana è necessario uscire da Kabul e chiedersi come sia la situazione lì, in un territorio che circonda lo scontro. Per lei ripartire dunque è sinonimo di ridistribuzione del racconto.
Da una rivoluzione
Luciana Castellina sa accendere una folla come se a parlare fosse una ragazza di vent’anni, stanca di un mondo politico che non la rappresenta. 93 anni, una lucidità e una fermezza nella parola da far invidia a un trentenne. Guarda in camera con uno sguardo capace di smuovere gli animi, di far sorridere, di trasmettere valori e punti di vista che guardano al futuro. Nessuno come lei è riuscita a parlare di futuro. Forse guardare oltre è come saltare lontano: occorre una bella rincorsa.
Oggi, come durante la sua intera carriera politica, vede nella rivoluzione e nella protesta gli unici strumenti in mano ai giovani per cambiare un modello di vita, di consumo e di produzione rimasto ancorato a un tempo passato, un modello per il quale non è facile trovare un’alternativa, seppure necessaria. In gioco ci sono questioni che vanno oltre a problemi immediati, eterna prerogativa della classe politica attuale. Non di tratta di bonus o di caro-vita ma di visione.
La sua risposta per ripartire arriva sotto forma di attacco indiretto a una generazione che credeva di aver fatto la rivoluzione e ora si ritrova a guardare nostalgicamente al passato. “Mi sento in grado di parlare solo con chi ha meno di 25 anni” dice tra le risate e gli applausi del pubblico. In queste esatte parole mi sono ritrovato. Percepisco vividamente la noia e la morte dell’anima quando parlo con qualcuno della mia età, una malinconia spesso frutta di perdita di memoria storica, un piagnisteo logorante di cui io stesso mi sono fatto amplificatore.
I giovani non sono insensibili alla politica. Semplicemente non sono interessati a questa politica e portano avanti le loro battaglie in altri modi, sebbene spesso inascoltati dal main stream o trattati con sufficienza o celebrazioni da talk show.
Io personalmente amo collaborare e confrontarmi con persone giovani che spesso trovo talentuose, creative, capaci e di grande ispirazione. E se non sanno cose che io so non ce ne vedo più il problema. Potrò forse trasmettere qualcosa ma soprattutto posso aprirmi a ciò che io non conosco.
A partire dai luoghi
A chiudere l’evento Marco Paolini, che del palco per diffondere idee ha fatto la sua vita. Ha iniziato il suo intervento chiedendoci da quando saremmo dovuti ripartire. Trovare un punto fisso nel tempo in cui dire che tutto quello che è venuto prima è il passato e ciò che verrà dopo il futuro. Siamo abituati a darci coordinate temporali in base al presente. Il covid, la guerra in Ucraina non sono la prima pandemia e il primo conflitto a cui assistiamo.
Alla memoria non possiamo fare affidamento, perché con gli anni si sporca di nostalgia, modificando ciò che è stato. Le previsioni sul futuro sono inadeguate, cambiano velocemente come le scelte politiche dell’elettore medio italiano. Per Paolini il futuro è un lutto attuale, e come tale abbiamo due strade: elaborare o rimuovere. Per tutti questi motivi bisogna chiedersi piuttosto da dove ripartire, inteso concretamente come luoghi, spazi in cui ritrovarsi per fare cose. Creare legami dal basso per poter fare vera politica.
Per reinventare il futuro
Filo conduttore di questi interventi, come di altri, è la presa di coscienza di un innegabile fallimento di un sistema incapace di reggere i nuovi cambiamenti. Non bisogna farne una colpa, niente in questo mondo cresce all’infinito, tutto ha una data di scadenza. Chi continua a nutrirsi di un modello che ha ormai dimostrato tutta la sua fragilità e le sue demenziali contraddizioni, deve accettare che non siamo più disposti a intossicarci, accettando in silenzio perché sprovvisti di soluzioni alternative. Ripartire è sempre una sfida ardua ma non per questo impossibile e per farlo occorre, come sempre, cominciare da sé e dalle comunità, dai paesi, le vie che amiamo, dai parenti, gli amici, i passanti.
Mi fermo qui. Grazie ancora una volta a tutti i volontari, a Laura Credidio che da 11 anni profonde un impegno infinito nel tenere le fila di questa iniziativa, a Riccardo Staglianò, curatore di questa edizione, e ai miei amici di Input Idea che quest’anno, insieme a Mattia Cavazzoli, hanno reso ancora più speciale un’esperienza già unica.